Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

lunedì 28 aprile 2014

EMOZIONI DI PRIMAVERA


Vigneti e oliveti visti dal Monte Gemola
Primi giorni di maggio: un venerdì pomeriggio che non prometteva niente di buono. Anna ed io ci apprestavamo a vivere tre giorni di sospirata vacanza grazie a un “ponte benedetto”. Nuvole basse e scure continuavano ad addensarsi nel grigiore plumbeo di un cielo intriso di pioggia. Non ci restava che aspettare fiduciosi l’evolversi della giornata e sperare nella clemenza di Giove Pluvio . Erano circa le cinque del pomeriggio, quando si aprirono le porte del cielo e venne giù il diluvio. Una pioggia fitta e continua bacchettava incessantemente strade, auto, terrazze, persiane e davanzali rimbalzando con tale forza, da rendere assordante il suo scrosciare. Il cielo, dai colori nero-violacei, si accendeva all’improvviso sputando lame saettanti che, a intermittenza, facevano udire il frastuono dei tuoni. Il forte rimbombo scuoteva l’aria e i vetri delle finestre vibravano a tal punto, che sembrava dovessero esplodere. Ad ogni colpo, un brivido gelido lungo la schiena. “Speriamo sia un temporale di passaggio”, disse Anna guardando tra i vetri gocciolanti della finestra. Non fece in tempo a finire la frase, che un altro boato squarciò l’aria. Anna si raggomitolò portando le braccia al petto, quasi a proteggersi. “Sicuramente sì” le risposi, rincuorandola “Guarda, laggiù si comincia già a vedere una striscia d’azzurro. E’ poca cosa, ma vedrai che fra un po’quei nuvoloni lasceranno spazio al sereno”. Intanto anch’io continuavo ad osservare il continuo peggioramento della situazione. Il bel giardino dei miei vicini diventava sempre più un acquitrino, le strade faticavano a digerire tutta quell’acqua trasformandosi in lunghi e rigonfi canaletti, alcune fronde d’albero si spezzarono come pure i bei fiori che avevo esposto nel terrazzo. Il forte vento non dava tregua. Davanti a me un muro d’acqua era scosso dalle forti raffiche, si muoveva in un andamento sinuoso andando a destra e a sinistra come in una danza. Nulla fu più definito, un vortice di sbiaditi colori si mischiava con la pioggia che continuava a venir giù violenta. Distolsi per un attimo lo sguardo dal persistente turbinio, arrendendomi ormai all’idea di passare il week-end rinchiuso in casa. Fui attratto però da qualcosa d’insolito che focalizzò la mia attenzione. Indietreggiai, scostandomi un po’ dalla finestra. Sui vetri fradici di pioggia, si erano formate tante goccioline cadenti che creavano un singolare effetto cromatico. Feci ancora qualche passo indietro e finalmente catturai il fascino e la poesia di quell’immagine. Il vetro era un dipinto e il telaio sembrava lo incorniciasse. Giardini, fiori, alberi, case, strade, cielo, tutto era un tocco di pennello. Come per magia, ogni cosa si tramutò in una tavolozza di colori dalle tinte appena accennate da far sembrare quella lastra trasparente un quadro impressionista di fine ottocento. Restai a guardare in silenzio, come se mi trovassi in una galleria d’arte a contemplare un dipinto. Fu Anna con uno schioccar di dita a destarmi da quell’imbambolamento artistico, facendomi notare che non era il caso che stessi lì impalato a guardare il nulla con occhi stralunati e persi nel vuoto. Mi ridestai e scherzando, cercai di ravvivare l’atmosfera: “Ma come, non vedi?, abbiamo un Renoir e nemmeno te ne accorgi! Lo sai che può valere una fortuna?”. Non capendo nulla d’arte e di pittori dell’ottocento, Anna mi guardò con compassione e, lasciandomi solo con le mie visioni, se ne andò senza dire niente. Alle otto della sera, i rintocchi del vicino campanile ci avvertirono che era l’ora della cena. Anna mise sul fuoco della minestra di verdure e del pesce con le patate. Cenammo con il fragore del temporale che, noncurante della nostra intimità, continuava a sfogare tutta la sua rabbia. Finito di cenare, restammo a tavola ancora un po’ a raccontarci i nostri pensieri e a chiederci, tra un sorso di caffè e un pezzetto di fondente, se l’indomani il bel tempo ci avrebbe permesso di andare da qualche parte o se saremmo stati costretti a trascorrere il resto del week-end andando in giro per centri commerciali. Le ore passavano e fuori il tempo non migliorava. La poca luce che restava, lasciava spazio al fulgido metallo delle saette che tracciavano di bianco un cielo a tinte sempre più cupe. Alle dieci e mezzo di sera, annoiati e piacevolmente rapiti da un senso di sonnolenza, ce ne andammo a dormire. Almeno ci provammo, perché il continuo tamburellare della pioggia non ci fece chiudere occhio per buona parte della notte. Ad un tratto, tutto si quietò e la calma, finalmente, ci fece addormentare. Il mattino seguente fui svegliato di buon’ora da un chiassoso cinguettio di uccelli, seguito a breve dal gruu-gruu di una tortora che trovò sul mio davanzale, un comodo posto d’osservazione per lanciare i suoi gutturali messaggi mattutini. Ancora addormentato, con poche ore di sonno alle spalle e con gli occhi che a malapena riuscivo ad aprire, vidi filtrare attraverso le fessure delle persiane, dei raggi di luce che andavano a riflettersi decisi sulle pareti della camera, formando un luminoso gioco d’onde provocato dalla morbida ondulazione delle tende. Mi alzai di scatto e corsi in cucina. Tirai su le persiane con addosso la curiosità di un bambino mentre scarta il suo regalo di Natale. Aprii la porta del terrazzo, uscii e un’ondata d’aria fresca e pulita m’investì. Fu come alzare i drappi rossi di un sipario dove a primeggiare era la natura. Non c’erano parole che potessero descrivere ciò che provavo in quel momento. Una mattina così bella e radiosa meritava senza dubbio di essere pienamente vissuta. Davanti a me si apriva uno scenario mozzafiato, uno di quelli che in città si vede raramente. Il cielo terso realizzava ogni forma, evidenziava ogni figura, facendola risaltare nell’azzurro intenso. In lontananza, sfumature di rosa davano il buongiorno alla catena delle Prealpi e alle loro creste macchiate di bianco. I profili sinuosi dei colli erano lì, sembrava di toccarli: ogni alberello, ogni particolare era nitido e pulito. Mi posai sul freddo cemento del poggiolo e socchiudendo gli occhi, cercai di respirare il piacere di quell’istante. Un buon profumo di caffè riempiva l’aria del mattino. Mi venne voglia di berne uno. Rientrai, preparai la moka, la misi sul fuoco, presi due tazzine e con cura le posai sul vassoio. Volevo fare una sorpresa ad Anna portandole il caffè a letto e informarla dell’inaspettata sorpresa. La luce crescente del sole che cominciava a bussare con più insistenza alle finestre, mi dava forza e buonumore. Il caffè iniziava a gorgogliare nella moka diffondendo il suo profumo per tutta la casa. Con il vassoio in mano e le tazzine che tintinnavano arrivai da Anna che nel frattempo si stava pian piano svegliando; le porsi la tazzina comunicandole la bella notizia e con dolcezza le lanciai l’idea di una partenza per i colli. Il suo mugugnare, voltandosi dall’altra parte, non mi fece presagire nulla di buono. La sollecitai nuovamente. Questa volta si alzò con la lentezza di un bradipo e, sempre lentamente, tirò su le persiane. Il sole, ora splendente, entrava con luce viva accarezzando le pareti della camera. “Apri la finestra e guarda!” le dissi. La aprì sporgendosi fuori con il busto per carpire fino in fondo i profumi che pervadevano l’aria. Dall’ampio giardino saliva il gradevole odore dell’erba bagnata e quello dolce e resinoso degli abeti che, alti come torri, primeggiavano su tutto il resto della vegetazione. L’umida terra evocava penetranti fragranze di sottobosco, i fiori piantati qua e là e le rose rampicanti emanavano essenze che inebriavano i sensi. Fu presa da un sussulto, i suoi occhi di colpo s’illuminarono ridestandosi dall’iniziale torpore. “ Non so che dire!”, esclamò “ E' tutto così bello … mi sembra di sognare!”. Stentava a crederci. Era un sogno? No, non lo era. La natura, ancora una volta, aveva voluto stupirci donandoci una delle sue meravigliose perle. Non ricordo se Anna mi ringraziò per averle portato il caffè, a quel punto non m’importava. Quello che invece mi rese felice, era l’aver visto il volto di Anna accendersi di gioia in un momento che entrambi sentivamo nostro: ci venne una gran voglia di partire. Come itinerario pensai alla comoda camminata che da Villa Beatrice porta ai bellissimi vigneti di Monte Fasolo. E’un percorso breve ma affascinante, che avevo fatto altre volte sempre però con giornate incerte e nuvolose che non mi diedero mai occasione di ammirare pienamente quell’incantevole paesaggio. Oggi finalmente era la giornata giusta. In breve tempo fummo pronti, sistemammo le ultime cose sullo zaino e partimmo. Il tragitto in auto, fu un’altalena di sorprese perché ogni angolo di verde ci sorprendeva e affascinava. Nascevano in noi nuove emozioni, nuovi entusiasmi: eravamo elettrizzati, euforici. Sembravamo due ragazzini partiti alla ricerca di un fantomatico tesoro, nascosto in chissà quale isola misteriosa, del tutto ignari di cosa saremmo andati incontro.

Rossi papaveri lungo il sentiero
Arrivammo nell’ampio parcheggio di Villa Beatrice, in cima al Monte Gemola, circondati da un fantastico paesaggio. Un’ordinata coltivazione di oliveti e vigneti, dava il via a una magnifica veduta sull’appuntita sagoma del Monte Lozzo, su quelle più tondeggianti del Cinto e del Rusta, sulle case raccolte intorno alla chiesetta di Santa Lucia, sul Monte Cero, sul Monte Castello e, spostando lo sguardo un po’più a destra, sulla vasta pianura che andava ad abbracciarsi alle colline vicentine i cui colori si attenuavano man mano che l’occhio si perdeva all’orizzonte. Avvolti da questo scenario paradisiaco, proseguimmo lungo una discesa sterrata. Ci sentivamo in forze e le gambe rispondevano bene ai nostri passi veloci e sicuri. Eravamo in balìa dell’aria e del suo respiro che ci faceva sentire leggeri e in piena armonia con la natura. Continuammo a seguire il viale e imboccammo via Monte Fasolo. Fatti alcuni metri in piano, arrivammo a una comoda salita che ci portò presso un capitello dove ci stava aspettando una bianca statuetta in gesso di una Madonnina: sembrava una gemma incastonata in un anello di pietra. Portava con sé corone di rosario donate da qualche anima pia. Per terra, su un tappeto d’erba ben rasata, c’erano deposti dei mazzetti di fiori, un paio di lumini e, legata ai piedi della statuetta, una foto a ricordare una persona cara. Dopo una breve sosta e un ringraziamento, continuammo il nostro cammino costeggiando coltivazioni di oliveti e vigneti dove papaveri e denti di leone accendevano con i loro colori quell’uniformità di verde.

Rosa Canina
Più avanti, siepi di rosa canina si mischiavano con la fioritura turgida delle ginestre, rendendo ancora più bello e profumato quell’angolo di paradiso. Una staccionata di legno, ci introduceva in un viale sterrato che tagliava in due una coltivazione di vigneti così tirati e ordinati da sembrare tanti soldatini sull’attenti in una parata militare. Ai margini del viale, due strisce di verde erano punteggiate dai vivaci colori del tulipano, della salvia dei prati, della radichiella e della margherita silvestre, mentre una serie di mandorli accompagnava i nostri passi fin quasi alla fattoria. Arrivati alla Fattoria di Monte Fasolo, dei bei cespugli di ginestra e rosmarino facevano da cornice all’ampia vegetazione di cipressi, abeti, pini e alberi da frutto che popolavano l’ampia vegetazione. Sull’altro versante invece, una cascata di stretti filari si tuffava in un mare ondulato di dolci colline che facevano da preludio ai noti profili del Venda, del Vendevolo, dell’Orbieso e del Ricco. Mentre Anna sorseggiava dell’acqua, mi spostai poco più avanti, in leggera discesa, all’ombra vivificante di un olivo. Lasciai andare i miei pensieri, posandomi sul grosso tronco rugoso e a braccia conserte ammirai estasiato quel verde oceano. Nell’aria, intime fragranze si mescolavano ai piacevoli effluvi della campagna. Un’atmosfera di piacevole abbandono mi pervase. Avrei voluto stendermi su quell’erba invitante per sentirmi accarezzare dalla leggera brezza, assaporando, nel silenzio che mi avvolgeva, quel meraviglioso attimo di pace. Guardai l’ora, erano le undici. Raggiunsi Anna, che nel frattempo aveva visitato i dintorni della Fattoria e le proposi di fare una sosta. Tirammo fuori dallo zaino i panini, l’acqua con limone zuccherata e delle fette di dolce casereccio fatto da lei. Andammo su uno spiazzo alberato poco distante, dove una panchina ci aspettava per consumare con calma il nostro spuntino.

Gladiolo dei campi
L’ombra e i profumi silvestri dell’aria creavano intorno a noi una suggestiva atmosfera di pace e di rilassatezza, da metterci addosso ancora più appetito. Mentre addentavamo con gusto il nostro panino, sentimmo un allegro vociare provenire da lontano. Vagammo incuriositi con lo sguardo, cercando di capire da dove provenisse. A un certo punto vedemmo sbucare in fondo al viale un gruppetto di ragazzini, capeggiati da tre giovani animatori, salire compatti e spediti alle allegre note di una canzone scout. Subito ci chiedemmo: proseguiranno nel loro cammino o si fermeranno qui? La risposta non si fece attendere perché, di lì a poco, li vedemmo accamparsi proprio vicino a noi interrompendo in maniera brusca il nostro attimo di magia. Posarono a terra i loro zaini come fossero sacchi di patate e una volta aperti, tirarono fuori di tutto: pane, cioccolate, biscotti, merendine, lattine di tè e di aranciata, frutta, dolciumi, roba da far invidia anche al più esperto esploratore. Finito di mangiare uno degli animatori, che doveva essere il capo, li chiamò a raccolta e li fece sedere a semicerchio. Una volta seduti, i ragazzi si misero ad ascoltare in religioso silenzio le esaurienti spiegazioni che gli animatori, a turno, esponevano sulla conoscenza e sulle particolari forme di vita presenti sul territorio degli Euganei. Quando a un certo punto uno di loro terminò di spiegare, d’improvviso si scatenò l’inferno. Tutti volevano dire la loro, evidentemente interessati dall’argomento. Chi voleva sapere a quale specie appartenesse un fiore, chi le caratteristiche di un albero o di una pianta, chi, addirittura, chiedeva informazioni sul nome dei colli che vedeva da casa sua. Una confusione di voci, gridolini e risate che mandarono su tutte le furie i tre animatori. Approfittando del caos che si era venuto a creare, una parte di loro si alzò iniziando a correre, zigzagando veloce tra gli alberi e sotto i filari delle vigne. Qualcun altro invece si lasciava cadere, rotolando goffamente sul terreno erboso punteggiato di giallo, poi si rialzava e ridacchiando riprendeva nuovamente la folle rincorsa. L’animatore esausto, pregò i suoi collaboratori, di andare a riprendere il gruppetto di “fuggitivi” e riportarli all’ordine. Non fu un’impresa facile ma alla fine ci riuscirono. Guardai la scena con un velo di nostalgia. Non volevo certo giustificarli, ma vedevo in loro quella sana e spensierata vivacità che anch’io avevo alla loro età. Un’età in cui tutto è bello e trasparente e l’innocenza riempie gli occhi di gioia, tenendo puro lo spirito. Ricordi di una tenera adolescenza si accavallarono nella mia mente come onde in tempesta. M’imbarcai allora sull’arca della malinconia, viaggiando verso i luoghi amati e i volti cari della mia gioventù, quelli che segnarono profondamente la mia esistenza e che ancora oggi ricordo con nostalgia. Dopo aver ritrovato la calma ed essersi rifocillati per una seconda volta, il gruppetto di ragazzini iniziò ad alzarsi. Ripresero da terra il proprio zaino, ora più leggero, se lo caricarono con disinvoltura sulle spalle e, seguendo il passo sicuro delle loro guide, se ne andarono, riprendendo a cantare e a mimare i folkloristici “bans[1]” che un animatore intonava. Mentre le scherzose note si affievolivano lungo il viale assieme ai miei ricordi, Anna ed io decidemmo che ormai era arrivato il momento di riprendere la via del ritorno. Raccogliemmo i nostri zaini e di buon passo riprendemmo a scendere percorrendo nuovamente il lungo viale che attraversava campi e vigneti, con lo sguardo rivolto verso il Monte Rusta che, elevandosi solitario davanti a noi, ci introduceva in una natura bella e rigogliosa. Camminavamo tra due ali di verde bosco irradiato dal sole, tra il profumo dei fiori di campo e il canto delizioso degli uccelli che faceva da sottofondo ai nostri passi orientati sulla via del ritorno.

Dolce nettare
Giungemmo al capitello in pietra, incontrando ancora una volta la candida Madonnina dal volto dolce e rassicurante. Eravamo ormai vicini al parcheggio. Poco distante, vicino a una serie di macchine in sosta, notammo un gruppetto di persone che facevano capannello davanti a una cartina svolazzante che, uno di loro, cercava di tenere ferma sul cofano dell’auto. Dal modo concitato che avevano di parlare, pensammo subito a qualche problema organizzativo o a un’indecisione sulla scelta del percorso. Io e Anna ci guardammo con aria sorpresa e, continuando a camminare, raggiungemmo il gruppetto. Prendendo coraggio, ci presentammo. Parlavano tedesco e questo non ci aiutò. Con poche parole, ma soprattutto con la mimica che solo noi italiani sappiamo esibire, tentammo in qualche modo di fargli capire che se avessero avuto bisogno di un’ informazione o di un consiglio su dove andare, li avremmo aiutati ben volentieri. Dopo un attimo di smarrimento da entrambi le parti, uno di loro si fece avanti e con un sorriso compiaciuto ci rispose: “ Gut, gut, tutto bene … no problema!” e senza aggiungere altro se ne tornò indietro, con noi due che, attoniti, lo seguimmo nel suo gesticolare mentre si riaggregava agli altri. Poi, recuperata la piantina, tutti insieme si allontanarono sventolando in aria quel pezzo di carta consumato e sdrucito, alla ricerca di un altro posto dove poter risolvere le proprie controversie. Ancora frustrati per i modi bruschi e sbrigativi con i quali il teutonico escursionista ci aveva liquidato, proseguimmo in silenzio il nostro cammino mentre, in lontananza, il gruppetto spariva tra le auto in sosta. Il nostro sguardo si addolcì nuovamente alla vista di un’anziana signora che riordinava con cura il suo bel giardino. Rastrellava e uniformava sapientemente la fitta ghiaia raccogliendo poi, con pazienza, gli aghi d’abete che il forte temporale aveva seminato sul prato il giorno prima. Prendemmo la breve salita che portava al parcheggio. Un tiepido sole rendeva l’aria ancora più satura di profumi. Il paesaggio, si era leggermente offuscato ma manteneva intatta la sua straordinaria bellezza. Arrivammo alla macchina. Gocce di sudore scendevano cristalline dalle nostre fronti, infrangendosi sulle guance paonazze e accalorate dalla fatica e dai raggi del sole che, per tutto il ritorno, avevano morbidamente accarezzato le nostre facce. Ci cambiammo, bevemmo dalle borracce l’ultimo sorso d’acqua, depositammo lo zaino lasciando fuori la macchina fotografica per un eventuale click e partimmo. Scendendo, seguimmo la strada asfaltata che portava lentamente verso la parrocchiale di Valle S. Giorgio. Ci sentivamo ebbri di gioia, avevamo ammirato la natura in tutto il suo splendore e questo ci gratificava nel cuore e nello spirito, non solo per aver vissuto intensamente ogni attimo di quella giornata, ma perché ci rendevamo conto di quanto grande, eterno, meraviglioso fosse l’amore di Dio, suo creatore. 

[1] Canzoni e balli di gruppo



Vigneti a Monte Fasolo

Vai al sentiero:
http://www.parcocollieuganei.com/doc/sentieri/FASOLO.pdf











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