Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

mercoledì 7 maggio 2014

MONTE CEVA

In cima al Monte Ceva - La Croce

C’è stato un periodo, in cui andavo spesso sugli Euganei a fare escursioni. M’incuriosiva conoscerne gli aspetti, i colori, gli odori. Quel mondo misterioso che ancora non conoscevo, mi attraeva, mi conquistava, volevo scoprirne i segreti più nascosti, più intimi ed entrare a farne parte. Andar per sentieri è sempre stata la mia passione. Ogni volta era una scommessa con me stesso, una continua sfida su cosa avrei potuto incontrare, scoprire, catturare; un susseguirsi di emozioni, di dolci frenesie, di fantastiche suggestioni che si intrecciavano tra di loro, unendosi poi in un unico abbraccio quando all’orizzonte mi appariva la meta. Come quella volta, quando percorsi il sentiero del Monte Ceva. Era una bella giornata di fine aprile con un cielo terso e pieno d’azzurro. L’aria fresca e pulita, portava con sé le deliziose fragranze di una natura che si rinvigoriva vestendosi di nuovi colori. Tutto questo mi mise addosso un irrefrenabile desiderio di partire e andare alla ricerca di nuovi itinerari. Passato il centro di Turri, salii la strada che porta al ristorante Belvedere fermando la macchina nell’antistante parcheggio. Presi lo zaino, l’immancabile Nikon e, attraversata la strada, m’incamminai lungo un esposto e luminoso viale fiancheggiato da alte siepi di pyracantha, che a inizio autunno s’ingioiellano di sgargianti bacche colorate e di biancospino, rivestito da bianche perle che sfoggiavano tutta la loro eleganza, profumando l’aria di dolci essenze. Di fronte, la conica cima del Monte Ceva innalzava come un segno di pace, la sua Croce che da lassù dominava sovrana tutta la pianura. Era lì, in mezzo a tutto quel verde, piccola e solitaria che pareva fatta col fil di ferro. Alcune persone erano già salite a farle visita. Mentre cercavo di immaginare a quale panorama avrei potuto assistere da lassù, vidi sbucare da dietro un muretto, un grazioso bastardino che scodinzolando allegramente, mi si avvicinò. Aveva il pelo bianco, pezzato di un colore ocra scuro che si spandeva anche sulla testa e sulle curiose orecchie piegate in avanti. Il musetto, furbo e attento, era dello stesso colore e faceva risaltare, come un ciuffo di panna montata, la punta del naso. La coda, bianca e pelosa, spolverava l’aria in un frenetico avanti e indietro segno forse, di una reciproca simpatia. Avrei voluto conoscere anche il suo nome, ma non portava nessun collare. Dopo aver ricambiato le sue attenzioni con una carezza sulla testa, m’incamminai in compagnia del pimpante amico che, zampettando lesto e sicuro, si mise davanti a fare strada. Una cosa buffa che mi colpì in quella bestiola, fu il movimento molle e sincrono della punta delle orecchie che andavano su e giù seguendo la singolare ritmica del suo passo, una scena che mi portò alla mente il cagnolino Whisky, il terrier scozzese di “ Lilli e il vagabondo”. Tra noi, s’instaurò subito un buon “feeling” e una sottile complicità. Ogni volta che mi fermavo per guardare il paesaggio o scattare una foto, si fermava anche lui, silenzioso assistente di quel momento; appena riprendevo il cammino, ripartiva di scatto, aspettandomi qualche metro più avanti, ansimante e con la lingua di fuori. Terminato di percorrere il lungo viale, giunsi a un bivio. Lasciai la strada, che proseguiva ancora dritta, svoltando a sinistra e prendendo uno stretto sentiero che saliva ripido tra una fitta vegetazione. Qui, il mio caro amico si fermò, facendomi capire che era giunta l’ora di salutarci. Peccato, mi dispiaceva perderlo per il resto dell’itinerario. Pensavo di aver trovato in lui un amico, un nuovo compagno di viaggio con il quale condividere altri momenti, altre emozioni; mi piaceva l’idea di sentirlo vicino e parlargli, incrociando quei suoi occhi svegli e quel nasetto di panna montata. Dovetti però arrendermi al suo istinto che, alla fine, gli suggerì di fermarsi proprio a quel bivio. Alzò il musetto, guardandomi con occhi dolci, inclinando da una parte la testa come a dire: “Amico mi dispiace, non so andare più avanti, non conosco la strada! D’ora in poi dovrai proseguire da solo ”. M’inginocchiai per salutarlo e lui, abbassando lo sguardo, si lasciò dolcemente accarezzare la testa, mentre la sua folta coda continuava a spolverare l’aria. Mi rialzai e a un tratto, sentii dei fischi e subito dopo, una voce che urlava: “Billooo! Billooo!”. Billo, che nome bizzarro – pensai. Ma più lo guardavo e più mi convincevo di come quel nome gli calzasse a pennello. Sollecitato dalla chiamata, Billo mi diede un’ultima occhiata e voltandosi all’improvviso, corse veloce verso chi lo aspettava. Accompagnai con lo sguardo la sua corsa che s’interruppe in fondo al viale dove, ad aspettarlo, c’era un ragazzino in sella a una bicicletta con agganciato al manubrio, un capiente portapacchi. Prese Billo da terra e lo fece entrare delicatamente nel cestino. Come una molla, la bestiola alzò la testa per vigilare quello che gli accadeva intorno poi si rimise giù, adagiandosi tranquillamente sul nido di vimini. Il ragazzino riprese a pedalare portando con sé Billo e, dopo alcuni metri, lo vidi sparire dietro alle alte siepi agghindate di bacche colorate. Ripresi il cammino, giungendo in uno spiazzo erboso dove spiccava la candida fioritura dell'Aglio Orsino che faceva da preludio agli inebrianti profumi del vicino sottobosco.
Iphiclides Podalirius
Tirai fuori dalla custodia la macchina fotografica per immortalare con alcuni scatti quel bianco tappeto ma mi accorsi, guardando nel mirino, che un bellissimo esemplare di farfalla Podalirio (Iphiclides Podalirius), stava immobile su quei fiori dai petali stellati. 
Ebbi un attimo di smarrimento misto a felicità, per l'inaspettato incontro.
Volevo a tutti i costi non farmi sfuggire un’immagine così unica. Cambiai obiettivo, misi su il tele e, senza indugiare, iniziai a scattare riprendendola, mentre, con grazia assoluta, si librava nell’aria con un rapido battito d'ali, planando elegantemente ora su un fiore, ora su un altro, restando a volte immobile per qualche secondo a suggere il dolce nettare. Ora che avevo fotografato le sue soavi evoluzioni, potevo ritenermi soddisfatto. Ripresi a camminare inoltrandomi sempre più nella folta vegetazione, percorrendo stretti viottoli che s’inerpicavano, con brevi tornanti, verso la cima del Ceva. Di colpo, mi trovai in uno spazio aperto, pianeggiante, dove notai la presenza del Cardo asinino (pianta grassa e spinosa, dal fiore rosa-violaceo), alcune tracce di Fico d’India e del profumato Dittamo, dai petali bianchi e affusolati, venati di rosso e dai lunghi pistilli che sembravano esplodere dalla corolla, come fuochi d’artificio.

Dittamo

Fico d'India
Respirai a pieni polmoni quegli odori aspri e dolci che mi portavano alla mente terre aride e selvagge, venti caldi di scirocco dove tutto è spento e il verde diventa una chimera. Un degradare di nuda roccia e le asperità di alcuni balzi rocciosi, era ciò che ancora mi separava dalla cima; ora la massiccia presenza del Fico d’India, dal polposo frutto amaranto, ricopriva gran parte del terreno, facendolo assomigliare a un vasto giardino rupestre. Tra le sporadiche macchie d’erba, fiorivano le delicate sfumature della Viola del Pensiero e della Cicerchia Odorosa, preziose gemme in mezzo a quel deserto di basalto. Ormai ero prossimo alla cima, vedevo la grande Croce di ferro, luccicare ai caldi raggi del sole. Mi arrampicai ancora, per risalire dei costoni rocciosi, le cui pareti si rivestivano di frastagliate e variopinte chiazze di licheni, dando risalto a uno scenario un po’ brullo. 
Un ultimo sforzo, e arrivai finalmente sulla cresta sassosa che portava alla Croce. Erano da poco passate le undici e il sole cominciava a scaldare ma l'aria, fresca e piacevole, dava refrigerio al mio sudore. Mi tolsi lo zaino e lo posai ai piedi della Croce che ora contemplavo in tutta la sua maestosità. Svettava alta, biblica, sacrale. Le sue forme, semplici e universali, andavano a stagliarsi nell'azzurra intensità di un cielo senza nuvole. Ripresi fiato sedendomi su un piano in ferro, posto alla base della Croce. Mi sentivo un re che, dall'alto del suo trono, dominava, da indiscusso sovrano, tutto il suo regno. Aprii lo zaino, tirai fuori una bottiglietta di acqua e limone e ne bevvi qualche sorso. Mi alzai e andai fino alla rete di protezione ad ammirare quell'infinito oceano che mi ruotava intorno. A 360° gradi tutti i più bei profili dei Colli Euganei rispondevano “Presente!” all'appello, come scolaretti al loro primo giorno di scuola, nella vivida luce di un mattino d'aprile. I monti Rua, Madonna, Grande, Ventolone, Piccolo, Spinefrasse, Orbieso... erano lì ad aspettarmi, impettiti ed eleganti. E poi la pianura, con le perfette geometrie dei campi, la rigogliosa varietà della vegetazione, i laghetti artificiali, piccole pozzanghere in mezzo a quel mare di fervidi colori. E ancora più in là, in un dolce degradare di campi e paesi, fino ad arrivare alle sfumate, ma ben definite, sagome delle Prealpi e all'impercettibile brillio della Laguna. Stetti in silenzio, ascoltando la pace dell’anima e lasciando che i miei occhi s’inebriassero di quell’affascinante spettacolo. In lontananza, i rumori vaghi e ovattati della città mi ridestarono conducendomi per mano a una scontata e grigia realtà. Mi rimisi in cammino, proseguendo lungo la dorsale del Ceva e arrivando a una seconda sommità rocciosa. Da qui proseguiva la stupenda panoramica sulla piana di Monticelli, sul monte Ricco e sulla Rocca di Monselice. Ad un tratto, fui investito dallo svolazzare concitato e confuso di due farfalle (Vanessa Atalanta o Vulcano e Vanessa Cardui o Vanessa del cardo), belle e colorate. 
Vanessa Atalanta
M’incantai a guardarle mentre s’inseguivano in un vorticoso piroettare, fatto di rapidi movimenti e frenetici batter d’ali: mi sentivo spettatore di un loro gioco. Si sfioravano, toccavano terra, si risollevavano e poi via, a perdersi negli spazi aerei della pianura. Un autentico spettacolo faunistico della natura. Poco dopo le vidi tornare e andarsi a posare sopra dei sassi, ricoperti da scure muffe. Il loro continuo rincorrersi, le portava ogni tanto a riposarsi, crogiolandosi all’invitante tepore del sole. Inutile dire che ne approfittai per scattare qualche foto. La natura, a volte, ci mette di fronte a degli spettacoli così unici e irripetibili, che è impossibile far finta di niente e non esserne coinvolti. Guardai l'orologio che segnava le dodici e un quarto. Decisi di tornare indietro e, in poco tempo, raggiunsi la cima principale. Solo con me stesso e con i miei pensieri, restai per qualche minuto immobile a contemplare, in un assordante silenzio, quell'infinità di verde e d'azzurro che mi stringeva, mi avvolgeva, racchiudendomi in sé, come i petali di un fiore. Avrei voluto far volare alta una preghiera, ma quello che seppi fare in quell'attimo fugace, fu sfiorare il caldo ferro della Croce e segnarmi, come cenno di ringraziamento. Raccolsi nel mio cuore quei momenti d'intimità e proseguii il cammino, discendendo per la stessa via dell’andata. Ero saturo di dolci sensazioni. Quel breve itinerario mi regalò una serie così bella d’immagini, emozioni, stati d'animo insoliti e mai provati, che, percorrendo il ritorno, la mia mente ne srotolò ogni fotogramma. In un tratto, dove la boscaglia si faceva più fitta e il sentiero si restringeva, limitando il passaggio ad appena una persona, vidi salire, con passo lento e regolare, una giovane coppia con un bimbo, seguita, a distanza, da quattro ragazzi che, al contrario, procedevano spediti e solerti verso la cima. Mi feci da parte sostando in leggera pendenza, su un piccolo spazio erboso, ai lati del sentiero, per permettere al gruppetto di passare agevolmente. I ragazzi, in poco tempo, raggiunsero e superarono la coppia dileguandosi poi, come agili camosci, su per il ripido sentiero. Il giovane padre invece, un uomo alto, magro, sulla trentina, faticava non poco a tenere seduto cavalcioni sulle spalle, il proprio figlioletto di tre – quattro anni, biondino, un po’ robusto, con due occhietti vispi e pieni di energia. L’infante, nella comoda e insolita posizione, dimenava su e giù le gambette paffute rispondendo divertito alle buffe espressioni di sua madre che, da dietro, lo stuzzicava facendolo ridere di gusto. Quello che invece non si divertiva affatto era il padre che, scambiato per un cammello tibetano, s’ingobbiva sempre più sollecitato dal peso del bimbo e dal suo continuo dimenarsi. Dopo aver assistito al simpatico siparietto famigliare, decisi di muovermi e ripresi a scendere. Passai accanto alla giovane coppia e con un cenno della mano, salutai. Lui, con un movimento lento del capo, contraccambiò continuando ingobbito a cadenzare i suoi passi che diventavano sempre più pesanti e impacciati, mentre sua moglie continuava a divertirsi insieme al piccolo “marajà”. Lasciandomi trasportare dal dolce pendio e superata una serie di strette serpentine, giunsi a una caratteristica scalinata, ricavata sull’umido terreno del sottobosco, con un poggia mani composto da un tronco sottile di castagno scortecciato, che seguiva con armonia la linea semicurva dei gradini. Giunsi così al bianco tappeto di Aglio orsino e, seguendo lo stretto viottolo, alla strada sterrata che mi riportò al lungo viale dove avevo incontrato il mio amico Billo. Arrivai al ristorante Belvedere che erano quasi le una e mezza, trovando il piazzale strapieno di lussuose auto tirate a lucido. Tra queste ne spiccava una, avvolta da larghe strisce di carta bianca, con un grande fiocco sopra il tetto, dei palloncini colorati attaccati qua e là, e dei cartelli con la scritta “ W GLI SPOSI!” , il tutto arricchito dai nomi dei due giovani sposini riportati sul cofano dell'auto con la schiuma spray. La mia invece stava ancora lì, modesta e grigia utilitaria e quasi non si notava in mezzo a tutto quel luccichio di carrozzerie all’ultimo grido. Dal locale, un mormorio confuso di voci festanti si mischiava alle allegre note di un valzer, mentre sull’ampio terrazzo alcuni invitati se ne stavano rilassati su una panchina a smaltire i fumi della festa.

Prima di partire, guardai ancora una volta la cima del Monte Ceva e la sua Croce che ora ritornava ad essere ai miei occhi piccola e solitaria. Raccolsi dentro me le tante emozioni che quella giornata mi aveva regalato, celandole con cura in fondo al cuore. Sulla via del ritorno un pensiero mi attraversò, proiettando la mente a giorni lontani, nascosti, in cui la mia voce tremante di narrante sognatore iniziava a raccontare le straordinarie avventure che Madre Natura, nella sua infinita bontà, mi aveva donato.

Nel magico silenzio del tramonto, lascio che i miei pensieri vaghino liberi, mentre m'abbandono alla leggerezza della vita.

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1 commento:

  1. Mi piace questo tuo modo di impostazione del blog, qui devo complimentarmi per le bellissime macro, molto bella anche l'ultima foto in controluce.Un saluto Sergio

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