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Un giorno lessi un bellissimo aforisma di Yogananda, un grande maestro spirituale indiano, che diceva: “Ogni volta che osservi un bel tramonto, pensa fra te e te: “E’ Dio che dipinge il cielo”. Anche a me è capitato, in più di un’occasione, di contemplare l’infinito splendore di maestosi tramonti, dai colori bellissimi, con sfumature che sfociavano in cromatismi incredibili tanto da sembrare dipinte nel cielo. Totalmente immerso in quell’atmosfera di calda serenità, di profonda pace, ammiravo incredulo l’evolversi di forme e striature dorate che dolcemente accarezzavano il cielo per espandersi poi, lentamente, tra le tonalità rosso cupo dell’orizzonte. Stavo di fronte a qualcosa di surreale, onirico, che mi allontanava da tutto e tutti. Solo, ad ascoltare nient’altro che le mie emozioni. Un tramonto che mi rimarrà impresso nella mente e che non scorderò mai, fu quello che vidi sul bel pianoro del Vegro – Sassonegro presso Valle S. Giorgio, in un incantevole sabato pomeriggio d’inizio dicembre. Già dal mattino, l’azzurro del cielo si presentava intenso e luminoso: era bellissimo guardarlo nella sua totale purezza: mi trasmetteva gioia, serenità. Dalla terrazza di casa, vedevo stagliarsi all’orizzonte le sagome dei colli e l’imponente catena delle Prealpi spruzzate di bianco. Nell’aria fredda e cristallina, si confondevano l’odore di neve, di biancheria pulita, di pane fatto in casa, di un Natale che pian piano si stava avvicinando. Udii le campane della vicina parrocchiale, suonare le dieci. Sentendo quei lenti rintocchi scandire regolarmente l'andar del tempo ebbi come un senso di rilassatezza, di appagamento. Socchiusi gli occhi, immaginando di essere trasportato in luoghi remoti, sperduti nel tempo, dove la pace e il silenzio trovano nel cuore un tiepido rifugio. Riaprii gli occhi, cominciavo a sentire freddo. Suggestionato da tali pensieri, mi resi conto di avere addosso soltanto un semplice maglioncino di cotone. Rientrai infreddolito, con il desiderio di scaldarmi con un buon caffè bollente. Preparai la tradizionale cògoma[1] con gesti lenti e misurati come in un rito propiziatorio. Non avevo voglia di modernità e di rumorose macchinette espresso. Avvolto nel magico silenzio della casa, aspettavo impaziente che il gorgoglio della bruna miscela salisse pian piano dalla moka e diffondesse in ogni stanza il suo fragrante aroma : volevo assaporare quel momento di calda intimità, nella maniera più autentica e naturale possibile. Il sole entrava radioso, andando a sbattere con prepotenza sulle pareti della cucina, creando un contrasto di luce così netto, da far sembrare il muro dipinto in due tonalità diverse. Respiravo il profumo del caffè che ancora aleggiava in cucina e negli occhi avevo ancora i vividi colori del mattino. Pensai allora che se la giornata fosse continuata così, verso sera avrei assistito a un tramonto da favola.
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Villa Molin si specchia sul canale Battaglia
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Nel frattempo, però, mi era venuta voglia di muovermi e di godermi quell'immenso azzurro, fino in fondo. Mi diressi verso il vicino argine che costeggia il corso del canale Battaglia: una piacevole e rilassante camminata che percorro ogni tanto quando il desiderio di solitudine si fa incalzante e la necessità di stare in pace con i miei pensieri mi sovrasta. Tutt'intorno c'era una pienezza di luce quasi accecante, il riflesso del sole era così forte, che a stento riuscivo a tenere gli occhi aperti. Giunsi sull'argine e cominciai a percorrere la lunga scia asfaltata, lasciandomi trasportare dal quieto andare dell'acqua e dai vivaci mulinelli che, di tanto in tanto, ne increspavano il flusso. Fatti pochi passi, sulla mia destra, la settecentesca Villa Molin si apprestava a darmi di sé l'immagine, superba e maestosa, della sua intramontabile bellezza. La vidi specchiarsi nell’acqua, frivola e vanitosa come una primadonna, in un mutevole gioco di ombre e di riflessi che la corrente disperdeva lungo il canale.
Di fronte alla Villa, scendendo l'argine, in un groviglio d’erbe e sterpaglie, vi erano i resti di un vecchio pontile di legno, un tempo meta d'attracco per imbarcazioni dedite al carico e scarico merci o al trasporto di passeggeri in visita alla Villa. Poco più avanti, su una delle insenature presenti lungo il canale create per gli amanti della pesca sportiva, stava un anziano signore sulla settantina che, seduto su un piccolo sgabello in alluminio, attendeva pazientemente che qualche pesce abboccasse al suo amo. Indossava una camicia di flanella a quadretti e un giaccone nero di lana pesante, dei pantaloni blu scuro della tuta e delle scarpe color tabacco, imbrattate di terra e fango. Aveva in testa un berretto “tipo militare” di un colore verde marcio che metteva in risalto il bianco immacolato dei capelli. Portava al collo un cordoncino alle cui estremità erano attaccati degli occhiali che inforcava sulla punta del naso ogni volta che doveva tirare su la lenza e rimettere l'esca nell'amo. L’impressione che mi diede fu quella di un pescatore sostanzialmente pratico, sicuro del fatto suo. Questo ebbi modo di notarlo dalle poche cose che portava con sé: una vaschetta di plastica trasparente contenente della pastura, un secchio vuoto di pittura murale da 5 kg. dove depositare l'eventuale pesce pescato e uno straccio. Basta. Il suo modo così essenziale di pescare mi mise addosso una tale curiosità che decisi di fermarmi ad osservarlo. Immobile, appollaiato sul suo seggiolino di tela e alluminio, reggeva la canna con fierezza attendendo pazientemente che il passaggio di qualche pesce la facesse oscillare. D’improvviso si ridestava, si alzava dal seggiolino e usando la leva del mulinello iniziava a tirare su la lenza che riemergeva dall’acqua mostrando alla fine l’amo con attaccati solo lunghi fili d’erba. Il vecchio però non si scoraggiava e, dopo aver ripulito l’amo e rimesso di nuovo l’esca, lanciava con vigore la lenza in un punto ancora più lontano, poi si rimetteva a sedere e aspettava. Questa operazione la rifece più volte, ma sempre con scarsi risultati. Quello che invece gli capitò più tardi fu il momento di vero pathos, la classica scena madre dove nervi saldi e concentrazione sono quasi sempre fondamentali. Dopo aver eseguito l’ennesimo lancio, vidi l’anziano pescatore armeggiare con insistenza sul mulinello e tirare a sé la canna fino ad inarcarla facendola diventare una “U”. E tirava, tirava, senza riuscire a far muovere la lenza di un solo centimetro: l’amo si era incagliato tra i sassi e la vegetazione del fondale. Fu a questo punto che ammirai tutta la sua maestria. Senza dire una parola, con la calma serafica di un giocatore di biliardo, disincagliò a piccoli strappi l'amo inclinando la canna a destra e a sinistra finché riuscì a farlo riemergere con la lenza ancora intatta. Non c’era più il piombo, inghiottito dalle erbe, ma ugualmente chapeau!
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L'arzillo pescatore |
Purtroppo, nella mia breve attesa, l’arzillo pescatore non tirò su l’ombra di un pesce: solo alghe, rametti e fanghiglia. Evidentemente, quel giorno, le divinità ittiche non erano dalla sua parte e ce la stavano mettendo tutta per fargli terminare la giornata con un sonoro “cappotto”[2]. Lasciai le speranze dell'indomito pescatore e proseguii il cammino, superando vecchi rustici, case coloniche e alcuni alberi pieni di cachi. Il passaggio di un aereo mi distolse dai miei pensieri. Mi fermai e guardai verso l’alto. Un punto metallico, illuminato dal sole, lasciava dietro se una soffice scia bianca: era solo una linea, una traccia, in quell’incredibile vastità d’azzurro. Poi lentamente si espandeva, formando nel cielo tante nuvolette, fiocchi morbidi e leggeri che andavano a sciogliersi nei celesti più tenui dell’orizzonte. Continuai il mio tranquillo passeggiare mentre, dall'altra parte del canale, mi giungevano i rumori del traffico e delle fabbriche che continuavano incessanti la loro frenetica attività. Provai a distrarmi da quel triste e caotico grigiore, tuffandomi in atmosfere più tranquille e rilassanti. Spostai lo sguardo e, in lontananza, tra una serie di nudi alberi, vidi risaltare, aerei e solitari, dei nidi di uccelli incastonati con abilità e precisione nell’intricato biforcarsi di alti rami che oscillavano avanti e indietro alle gelide folate di vento. Più avanti, come in uno scorrere di diapositive, il paesaggio cambiava aspetto. Immensi campi di terra bruna, finemente arati, si perdevano a vista d'occhio verso i paesi limitrofi, sino a raggiungere i lontani abitati dei colli Euganei. Erano divisi, in bell'ordine, da strette canalette, alberi e giovani arbusti, mentre larghe fasce d'erba, bruciate dal freddo e dalle continue brinate, segnavano le vie d'accesso. L’aria intanto, si era fatta ancora più rigida e le improvvise sferzate di vento, si abbattevano sul mio viso come lame taglienti ma non ci badavo, era troppo bello ciò che mi circondava. Andai avanti, fiancheggiando ancora abitazioni, orti, piccoli vigneti e una vecchia casa rurale di fine ottocento. Sullo sfondo, nascoste dall’alta vegetazione, s’intravedevano le sagome ondulate dei colli, impazienti di scoprirsi ai miei occhi in tutta la loro bellezza e sontuosità. Davanti a me invece, la Rocca di Monselice assumeva, da lontano, le forme essenziali e pulite di un piccolo quadratino che, posato sui morbidi e rotondi profili del colle, componeva un’immagine alquanto particolare, quasi sensuale. Voltai nuovamente lo sguardo verso le ampie coltivazioni, come attratto da qualcosa di supremo, di magico.
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Le Prealpi viste dall'argine Battaglia |
All'orizzonte, mi si presentava l'immenso, l'incomparabile. Tutto era infinitamente chiaro, visibile, smisurato. A 180°gradi le tondeggianti e nitide cime del Venda, del Vendevolo, del M. della Madonna, dei monti Grande, Ricco, Gallo e Rua, si univano a quelle più severe e frastagliate delle Prealpi Venete, impettite nel loro bianco mantello e rese ancor più surreali dalla luce obliqua del sole che ne irradiava le pareti: uno spettacolo unico. Era la prima volta che assistevo a un simile evento: due conformazioni diverse l'una all'altra, dividevano in due il panorama. Sembrava che quel giorno avessero deciso di incontrarsi e salutarsi con un fraterno abbraccio. Restai per qualche minuto a contemplare in silenzio quell'incantevole anfiteatro fatto di luci e ombre, di primi e secondi piani, di linee dolci e armoniose che via via andavano a impennarsi in un susseguirsi di guglie e pinnacoli, per poi confondersi tra i rami spogli degli alberi che ne lasciavano intuire il proseguimento, sino a scomparire dietro i tetti luccicanti di case e palazzi. Seguitai il mio cammino e, a pochi passi dal Ponte della Fabbrica, il mio sguardo si posò su un alberello di cipresso nano, piantato proprio sul ciglio della stretta scia d'asfalto. Per terra vi erano dei fiori colorati con dell'edera e un cippo in pietra faceva da sfondo a una piccola foto che ricordava la breve esistenza di una vita. Mi fermai a guardare quel giovane volto, in silenzio, stretto da un sentimento di cordoglio che in quella circostanza mi univa ai suoi cari. Guardai l'ora: mezzogiorno e un quarto. Avrei potuto continuare ancora la mia camminata, oltrepassando il ponte e proseguendo verso Mezzavia, ma preferii fare marcia indietro e, meditando su tutto quello che avevo visto fino a quel momento, ripresi lentamente la via del ritorno. La giornata continuava a rimanere splendente e piena di colori: le mie previsioni si stavano avverando. Avevo ancora tutto un pomeriggio da vivere e una gran voglia di ripartire. Verso l’una, preparai un pranzo veloce: pasta al sugo, una bistecca con l’insalata ed, infine, un caffè. Abbandonai poi ogni mio pensiero e mi lasciai andare a un buon sonno ristoratore. Mi svegliai verso le quattro, il sole iniziava ad assumere le tonalità calde e avvolgenti del tardo pomeriggio, lasciando che il cielo si colorasse di un azzurro intenso, quasi blu. Dovevo prefissarmi una meta e partire al più presto ma, sul momento, non mi venne in mente nessun luogo in particolare così decisi di pensarci durante il viaggio. Presi tutto ciò che mi serviva e, in un lampo, uscii di casa.
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Pianoro Vegro-Sassonegro |
Strada facendo, mi ricordai che nei pressi di Valle S. Giorgio, vi era un posto molto bello situato in un punto aperto e panoramico chiamato Vegro – Sassonegro, dove sicuramente avrei potuto beneficiare degli ultimi sussulti di una giornata a dir poco incantevole. Seguendo le indicazioni per Arquà Petrarca, percorsi la pittoresca strada Statale 16 accompagnato da una natura che, seppur spoglia, emanava ugualmente un suo fascino particolare. Il regolare e simmetrico ondulare dei campi, illuminati dalla magica luce del sole, si accendeva ai magici colori della terra di Siena, dell’ocra, del marrone bruciato, del verde chiaro dei prati e delle scie d’erba che segnavano la perfetta geometria dei filari spogli, mentre i sempreverdi olivi risaltavano nella loro caratteristica tonalità. Solitari casolari comparivano qua e là come sentinelle, a sorvegliare un paesaggio solo apparentemente immobile. Ero di fronte ad un “affresco” di rara suggestione. Arrivai a un bivio, girai a sinistra e lasciandomi alle spalle il centro di Arquà proseguii lungo la Provinciale 21che mi avrebbe portato, dopo la salita di alcuni tornanti, al Passo delle Croci in località Sassonegro. Qui svoltai di nuovo a sinistra per una stretta via sterrata (via Moschine) dove parcheggiai. Scesi dall’auto e subito un’ondata d’aria pulita inondò le mie narici. La respirai a pieni polmoni, più volte, inebriandomi del suo profumo fino a lacrimare. Guardai l’ora: meno dieci alle cinque. Il cielo cominciava ad assumere tonalità crepuscolari lasciando intravedere bagliori di autentica poesia. Con lo zaino sulle spalle e la macchina fotografica a tracolla, attraversai la Provinciale (via Aganoor) e mi diressi, prendendo via Pajone, verso il pianoro. Fatti pochi metri, due ali di staccionata m’introducevano in quello che reputo uno dei punti panoramici più belli dei colli Euganei. In leggera salita giunsi finalmente alla sommità dell'aperto pianoro. Qui, ebbi una vista spettacolare: sulla sinistra, in lontananza, il Monte Castello e la chiesa di Calaone. Di fronte il Monte Cero sembrava tuffarsi su un’ordinata pianura tappezzata di vigneti, coltivazioni e lunghe strisce di terra arata; più in là, diviso da un’estensione di campi che si perdevano all’orizzonte con le Prealpi che iniziavano a mostrare i colori del tramonto, si ergeva il Monte Gemola, in basso il bellissimo campanile della parrocchiale di Valle S. Giorgio e sulla cima la seicentesca Villa Beatrice. Sulla destra, poco spostato dal Gemola, la sagoma tondeggiante del Monte Rusta, andava ad abbracciare i dolci pendii del Monte Fasolo.
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Tramonto sul Monte Venda |
Sullo sfondo, le antenne del Monte Venda svettavano alte e snelle, lanciando in un cielo color ambra le loro frequenze. E poi ancora il Rua, l’Orbieso e il Ventolone a chiudere una rassegna di cime da togliere il fiato. Alle mie spalle invece, la Rocca di Monselice e il Monte Ricco dominavano la pianura, con gli abitati di Arquà Petrarca, Monselice, Monticelli, Galzignano e Battaglia Terme, che pian piano cedevano la loro luce alle prime ombre della sera. Ritornai con lo sguardo verso ovest, dove lo spettacolo stava per iniziare. In un autentico palcoscenico naturale, la sfera gialla e fluorescente del sole cominciava lentamente il suo tramonto accendendo il cielo di rossi e arancioni che andavano a fondersi verso l'alto in colori più ambrati fino a raggiungere il crescente tono degli azzurri e dei blu. Le nuvole erano lievi pennellate di rosa che accarezzavano il cielo. Assorte e silenziose, anche le Prealpi assumevano i colori forti del corallo e del granato, formando quasi un tutt'uno con l'orizzonte infuocato: solo la linea scura e sottile disegnata dalle creste, ne faceva intuire la presenza. Intanto il sole lentamente si eclissava, portando con sé le ultime luci. L'azzurro del cielo veniva inghiottito dal blu scuro della sera che abbruniva ogni cosa rendendola cupa, fredda, lontana. Era come assistere al lento spegnersi della vita. Una sensazione di solitudine e di abbandono mi pervase l’animo, portandomi alla memoria la figura di mio padre. In quel luogo incantato dove regnava sovrano il silenzio, sentii forte la sua presenza e il ricordo, ancora vivo nella mente, mi portò al pianto. Piansi, piansi come non avevo mai fatto in vita mia. Piansi di nostalgia, di rabbia, piansi pensando a quelle cose che avrei potuto condividere ancora con lui, a quello che avrei dovuto dirgli e per pigrizia o timidezza non sono riuscito a dire, assistendo impotente all’implacabile cavalcata dell’oscuro tiranno che in breve tempo se lo portò via in una fredda notte d’autunno, lasciandomi dentro un grande vuoto e un profondo senso di rimorso. Mi asciugai le lacrime e osservai l'orizzonte. I colori del tramonto si stavano pian piano affievolendo. Tutt'intorno la natura aumentava la sua oscurità divenendo ancora più uniforme e immobile. Anche il vento gelido, che fin prima scuoteva la natura, si stava placando. Dal largo pianoro ritornai verso l'auto, accompagnato dall’incerta luce che rimaneva. Dalla pianura, i centri abitati s'illuminavano come tante stille lucenti, facendo sembrare il paesaggio un immenso presepe. Scendendo la strada del ritorno, illuminata dall’ultimo rosa della sera e dagli abbaglianti delle macchine, ripensai alla giornata appena trascorsa ed entrai in un’atmosfera di piacevole beatitudine e leggerezza, consapevole di aver realizzato qualcosa di bello, di importante. Di sicuro ebbi il tempo necessario per confrontarmi con me stesso, riflettendo sui miei pensieri, ascoltando i miei sentimenti anche i più profondi e trovando la certezza che lassù, nell’ immensità celeste, esiste un Creatore che ci aiuta e ci guida nel tortuoso percorso della vita senza mai farci sentire soli.
Ciao papà, ti voglio bene.
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Negli eterei spazi del cielo il mio cuore troverà sempre rifugio nei tuoi pensieri, padre mio. |
[1]) Caffettiera, moka.
[2]) Giornata di pesca senza alcuna cattura.
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