Colori d'autunno

Colori d'autunno
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo. Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando tra la cenere si pensa al fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare avanti.” (Mauro Corona)

lunedì 23 giugno 2014

L’INCONTRO


La panchina, luogo d'incontro per raccontare... per raccontarsi.
                                                                                                            
Mi è capitato, durante il percorso della mia vita, di imbattermi in situazioni strane, in storie imprevedibili, a volte paradossali, completamente avulse dalla realtà che fino a quel momento stavo vivendo. Senza accorgermene, mi trovavo catapultato in una dimensione nuova, con indosso un ruolo cui sentivo di non appartenere. Era come se davanti a me ci fosse un muro invalicabile di diffidenza e scetticismo, oltre il quale non riuscivo a porre le mie scelte, i miei pensieri. Meglio allora starsene nella propria agiatezza, rintanati al proprio posto, senza il rischio di andare incontro a una realtà disagevole e ingombrante, con il timore, magari, di non trovare le espressioni o gli atteggiamenti idonei per far fronte a quella circostanza. Mi rendevo conto, insomma, di vivere una situazione che diventava sempre più stantia, opprimente e il desiderio di voltar le spalle e fuggire, diventava sempre più un’ipotesi concreta. Poi, come sospinto da una forza estranea, misteriosa, nacquero in me nuove sensazioni che m’incoraggiarono a volare oltre quel muro che fino a prima trovavo insormontabile. Finalmente andavo incontro alla mia libertà, avrei potuto guardarla in faccia, assaporarla, godermela serenamente, senza paure, cercando di scoprirne ogni angolo, ogni punto nascosto. Una libertà che volevo sentire finalmente mia, perché solo così avrei potuto vivere la mia vita fino in fondo. 

Giallo d'autunno


Domenica mattina. La giornata si presentava limpida e fresca, illuminata dalla luce intensa e pulita di un sole sgombro da nubi. Sebbene fossimo ai primi di novembre, l’autunno non voleva separarsi dai suoi colori, continuando a vestire la natura con la sua coperta tessuta di calde tonalità. Mi trovavo, dopo appena due settimane dall’escursione al Monte Grande, a ripercorrere i tornanti di Teolo, questa volta di ritorno da una piacevole camminata lungo i sentieri boschivi del Monte della Madonna. Mentre percorrevo la strada che mi portava a Villa, notai, ai lati della corsia, un’anziana donna e un ragazzino che camminavano, una dietro l’altro, rasente un muretto di contenimento che costeggiava la corsia stessa. Li passai, sfiorandoli con lo sguardo, immaginando il rischio cui andavano incontro nel percorrere una strada così stretta e frequentata, sprovvista per di più di una segnaletica pedonale. Continuai la mia guida fluida e tranquilla, lasciandomi alle spalle la semplice considerazione. Fuori, intanto, spirali di vento seguitavano a mulinare aria in un continuo andirivieni di gelidi soffi. Aprii il finestrino. Volevo godermi quell’aria e respirarla. Cristalline fragranze m’inondarono il respiro di buono. Immerso in quella metamorfosi di colori che mi si appiccicavano addosso in un abbraccio festoso, guardai trasognato quel capolavoro naturale che il vetro del cruscotto sembrava incorniciare. Tutto era armonia, stupore, leggerezza, poesia. Stavo per raggiungere, nel frattempo, il luogo dove, quindici giorni prima, il mio sguardo fu rapito dall’immagine sfuggente e misteriosa di uno scorcio di paesaggio in cui l’immagine di un esile albero, bastò per accendermi la fantasia. Improvvisamente, dal mio inconscio, sentii uscire una vocina che richiamò la mia attenzione. Mi strattonava, mi scuoteva, cercando in tutti i modi di svegliarmi da quel mistico torpore che mi avvolgeva: era come se mi mandasse un segnale, un avvertimento. Pensai bene di darle ascolto. Almeno per una volta, giusto o sbagliato che fosse. Troppo spesso, infatti, per pigrizia o per voluta indifferenza ebbi la presunzione di non prenderla in considerazione, ignorandone l’“imput” che lei stessa mi trasmetteva come un segnale, un avvertimento. Conscio, poi, dell’errore, alla fine mi pentivo, ma ormai era tardi. La vendetta era consumata. Lasciai, allora, che la “fraterna vocina” mi afferrasse per mano, per condurmi in un viaggio sconosciuto, che desideravo vivere a tutti i costi. Decisi così di ripercorrere quel sentiero. Giunsi a destinazione che erano le undici. Scesi dall’auto e rividi, ancora una volta, quel frammento di poesia che continuava a stare lì, incastonato tra quelle mura, come diamante in un solitario. L’alberello, invece, resisteva stoicamente alle intemperanze del vento che lo ingobbivano sempre di più. Presi con me lo zaino e la macchina fotografica, pensando all’eventualità di scattare nuove foto: era la giornata ideale, ben diversa da quella piatta e minacciosa vissuta due settimane prima; sicuramente avrei trovato un’altra atmosfera, altri colori, altre emozioni. Risalii il tratto d’asfalto che mi separava dal punto esatto da dove aveva inizio la stradina sterrata. Giunsi in prossimità della casa color mattone chiaro con i due melograni che mostravano, ancora rigogliosi, i coriacei frutti. Prima però di iniziare il sentiero, m’incuriosì l’idea di avvicinarmi a una delle finestre, sperando di trovare ancora il volto vigile dell’anziana signora. Guardai attraverso i vetri, ma non vidi nessuno, né percepii alcun rumore. Sembrava proprio che all’interno non ci fosse anima viva. Forse sarà andata alla messa, pensai, o forse sarà da qualche parente a consumare il pranzo della domenica. Allora mi spostai più in là, sul lato meno esposto della casa, con la speranza di trovarla in orto a “rancuràre[1]” verdura o a dar da mangiare alle poche galline che aveva, ma neanche lì la trovai. Tornai indietro, questa volta deciso a iniziare il sentiero. Ci saranno altre occasioni per incontrarla, mi dissi.

La signora, conscia della mia resa, rilassò il suo volto....
Stavo mettendomi in cammino, quando sentii alle spalle una voce appena percepibile, esclamare: ” Ehi, giovinòto!”. Inizialmente non ci feci caso. Poi il tono aumentò facendosi più fermo e deciso: “ Siòr, pòlo fermàrse?” . A quel punto intuii che ero io l’obiettivo. Mi voltai, cercando con lo sguardo quella voce che sentivo provenire dalla strada. In lontananza, vidi una signora, vestita di scuro, venirmi incontro con passo lento e dinoccolato che cercava, con ampi cenni del braccio, di attirare la mia attenzione. Si trattava dell’anziana donna intravista poco prima, sulla grigia discesa di Teolo. Ad accompagnarla c’era ancora il ragazzino, un tipetto singolare, tutto pelle e ossa con i capelli dritti in testa, neri come l’inchiostro, che improvvisamente, come risucchiato da una forza magnetica, si staccò da lei dileguandosi giù per un vicolo secondario fino a scomparire dietro a una siepe. Chissà cosa spinse quel furetto, a una fuga così risoluta e sbrigativa. Mentre la donna si avvicinava, ebbi modo di mettere a fuoco la sua figura che pian piano prendeva forma, somigliando sempre di più a qualcuno già visto. I bianchi capelli scompigliati dal vento, sembravano fili di seta che, con la luce riflessa del sole, assumevano il candore della neve, il volto era solcato da sottili rughe che parevano disegnate a penna e davano all’espressione un tono di fermezza e severità, da incutermi un senso di riguardo. Portava un lungo vestito scuro, un po’ a fantasia, una traversa bianca con bordi azzurri allacciata in vita e uno scialle di lana traforato, che le copriva le spalle. Sul fianco destro, sosteneva un cesto di vimini pieno di biancheria pulita, che reggeva aiutandosi con il braccio. Quando fu a pochi metri, capii subito che si trattava dell’anziana donna che tanto avevo cercato. Piacevolmente sorpreso dell’incontro, a quel punto, m’incuriosì conoscerla. Lei, invece, sembrò non pensarla allo stesso modo. Lo capii dal tono di voce, quasi minaccioso, con il quale m’invitava a esporle le ragioni della mia intrusione. Con calma, cercai inizialmente di farle venire alla mente i particolari del nostro precedente incontro – cosa che lei continuava a non ricordare – ma soprattutto volevo spiegarle che, ancora una volta, si sbagliava a essere così diffidente nei miei confronti. In fondo non stavo facendo nulla di male, ero distante dalla sua abitazione e all’inizio del sentiero non vi era nessuna indicazione o sbarramento che ne vietasse l’accesso. Lei, invece, proseguì imperterrita nei suoi ragionamenti, ripetendomi più volte che quel sentiero non portava da nessuna parte e che vedere gente come me, gironzolare intorno a casa sua, la angosciava. Mentre mi parlava, percepii un sottile velo di apprensione che la sua voce mal nascondeva. A quel punto, non volli accentuare ancora di più il suo disagio e, scusandomi ancora per averla intimorita, la salutai. Ci fu un gran silenzio, nessuno di noi due aggiunse più nulla e tutto sembrò quietarsi. D’improvviso, un lampo scosse i pensieri dell’anziana donna. Nella sua mente, il ricordo di quel sabato mattina le apparve in tutta la sua chiarezza. Mi richiamò a se, e in un susseguirsi di rapidi flash, mi descrisse i vari episodi che caratterizzarono quella singolare giornata. La coperta di gelo che fino a qualche istante prima ci avvolgeva, ora si stava pian piano sciogliendo. Quando tutto fu chiarito, per prima cosa le chiesi se era possibile conoscere il suo nome. In un dialetto stretto, da tenace e arcigna donna di campagna, disse di chiamarsi Rosa, anche se la gente del posto continuava a variarlo usando vezzeggiativi del tipo “ina” (Rosina) o “etta” (Rosetta). Questa, era una cosa che mal sopportava e che la faceva sentire a disagio; glielo lessi nella sua espressione triste e rassegnata con cui me ne parlava. Era diventata ormai una questione di principio, una fissazione quasi maniacale. Quelle variazioni in “ina” o “etta”, non facevano altro che distorcere la bellezza del nome e la leggiadria del suo significato. Sosteneva, infatti, che il nome di una persona, andasse rispettato, ammirato, a volte anche invidiato. In fin dei conti è ciò che ci rappresenta, ci identifica, ci unisce; è il valore aggiunto alla nostra personalità, il vestito buono da indossare per l’intera vita: perché, allora, alterarne la primitiva bellezza? Un respiro profondo, quasi liberatorio, uscì improvviso dalle sue labbra. Dalla tasca del grembiule, tirò fuori un fazzoletto per asciugarsi il naso diventato paonazzo per il freddo. Poi, senza che aggiungessi parola, mi confessò di essere rimasta da poco vedova e di avere due figli, un maschio e una femmina, felicemente sposati ma, purtroppo, molto distanti da lei. Mentre diceva questo, il suo sguardo si riempì d’ansia. “I vièn catàrme cussì pòco”, disse attorcigliando nervosamente tra le mani il fazzoletto, “ che sa gò bisogno de calcòssa, a fasso ora voltar l’ocio dièse volte!” (Vengono a trovarmi così poco, che se ho bisogno di qualcosa, faccio tempo a morire dieci volte). A questa frase, mi venne da sorridere, ma nel volto di Rosa notai la sofferenza della solitudine e dell’abbandono. Rosa viveva da sola, accompagnata dai suoi ricordi. Da sempre aveva sperato che almeno uno dei due figli, vedendola sfiorire, potesse darle una mano e starle vicino, confortandola, infondendole coraggio e nuova linfa nei momenti in cui si sentiva sola. Evidentemente, il destino le riservava altro. La cosa certa era che Rosa doveva ancora combattere, con se stessa e con la vita. Le restava la sua terra. Quella terra che, fin da ragazzina, imparò a coltivare e a rendere fertile ma che non le permise, una volta cresciuta, di vivere pienamente la sua libertà di giovane donna, portandola a sacrificare lo svago e l’amore. Quella terra che tanto le aveva tolto, ma che sentiva ancora di amare più della sua vita.

Nella terra appena dissodata, una nuova vita sta per nascere.

Ascoltai Rosa in silenzio, lo stesso che impregnava l’aria in quel momento. Dopo un po’ le chiesi, vista la sua vena confidenziale, se non era il caso di trovare un posto in cui sedersi per continuare tranquillamente la conversazione. Senza dire niente, prese da terra il cesto di biancheria, si diresse verso l’entrata di casa e lo posò accanto alla parete, in maniera che stesse riparato. Poi, con un cenno della mano, m’invitò a seguirla. Passammo di fianco casa e scendemmo lungo una stradina ghiaiosa fiancheggiata da alte siepi che nascondevano una serie di abitazioni. Percorsi alcuni metri, sbucammo presso un cortile che si apriva su un’ampia piazza, attorniata dai vividi colori del platano e del frassino che ne adombravano in parte la superficie. Ai bordi, un trittico di panchine e tavolini in pietra ammuffiti dal tempo e dalle intemperie, creavano una specie di semicerchio che ne seguiva la forma circolare. A questo punto Rosa si fermò, indicandomi con il dito la panchina su cui era solita sedersi. “ Quà d’istà ea zente vien par stare al fresco e ciacolàre de quèlo che capita.” (Qua, d’estate, la gente viene per rinfrescarsi e chiacchierare di quello che succede), disse guardandosi intorno come se fosse lei a gestire quello spazio. Prima di sederci, spostammo con la mano alcune foglie secche che coprivano la seduta della panchina, mentre quelle a terra continuavano a scrocchiare allegre sotto i nostri piedi. Aiutai Rosa ad accomodarsi, facendo attenzione ché non scivolasse. Poi mi sedetti anch’io, appoggiandomi a fianco, lo zainetto e la macchina fotografica. Rivolsi d’istinto lo sguardo al cielo. Non so esattamente il perché, ma lo feci. Forse era un modo per attingere un’idea o un’ispirazione adatta alla circostanza. Era di un azzurro intenso, illimitato, sembrava un immenso oceano. Fissai quel colore fino a riempirmi gli occhi. Mi trasmetteva gioia, mi rilassava, mi faceva stare bene.

Colori d'autunno
Gli alberi, intanto, continuavano a essere spazzolati dal giocoso soffiare del vento d’autunno che si divertiva come un matto a tirar via le foglie dai rami, facendole cadere a terra come tante piume colorate. Per le vie e nelle vicine case regnava il silenzio del dopo pranzo. Un silenzio che comunque trovai avvolgente, sacrale, che riempiva di pace quel momento. Un tocco di campana, proveniente dalla vicina vallata, mise fine a quell’incanto. Balzando su di scatto dalla panchina, guardai l’orologio che portavo al polso, segnava l’una e trenta. Il tempo era volato via senza che me ne accorgessi ed ero in forte ritardo per il pranzo. Cercai di congedarmi in fretta da Rosa, scusandomi per il breve tempo dedicatole ma, soprattutto, pensando alle imprecazioni che avrei ricevuto da mia moglie al mio ritorno. Lei, di contro, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi fermò, pregandomi di restare. Fu una richiesta che mi spiazzò, lasciandomi senza una risposta. Incespicando sulle parole, cercai di farle capire che avevo una famiglia che mi stava aspettando e che anche lei, forse, avrebbe dovuto pensare al suo appetito. Con la schiettezza che la distingueva, mi rispose che già si sentiva sazia avendo fatto, durante la mattinata, un’abbondante colazione da sua nipote. I morsi della fame mi stavano attorcigliando lo stomaco. Non sapevo cosa dire né come comportarmi. Mi resi conto di trovarmi di fronte a una situazione paradossale, oppresso da un’incertezza che mi teneva in bilico. Quella stessa incertezza che ogni giorno m’intralciava la vita rendendomela insicura e piena di dubbi. Guardai Rosa che se ne stava seduta lì, sull’umida panchina di pietra, in attesa di una mia risposta che tardava ad arrivare ma che alla fine, trovai. Lasciai le mie apprensioni disperdersi nel vento, insieme al profumo di foglie sfatte che l’aria sollevava da terra, e con un cenno del capo feci segno a Rosa che sarei rimasto, incontrando nei suoi occhi un segno di compiacimento. Chiamai mia moglie informandola di quanto stava accadendo. La pregai di non preoccuparsi e di aspettare tranquilla il mio ritorno. Completate con buon esito le formalità coniugali, presi lo zaino per vedere cos’era avanzato dalla camminata fatta nella mattinata. Lo aprii trovandovi ancora due pacchetti di crackers, dell’acqua e una barretta di cioccolato avvolta nell’alluminio. Tirai fuori il “mesto pranzo” offrendogliene anche a Rosa che, nonostante la sua sazietà, accettò volentieri. Mangiammo per un po’in silenzio, cullati dal lento andare dei pensieri che vagavano leggeri la nostra mente. Centellinando ogni morso, rimanevo con lo sguardo incantato a fissare un punto davanti a me, senza riuscire a metterlo a fuoco, come se andassi in cerca di una risposta che mi svelasse il perché di quell’istante. Fu Rosa a rompere l’armonioso silenzio, parlandomi ancora una volta della sua gioventù e della sua terra. Col passare del tempo il nostro dialogo divenne più scorrevole e sincero. Iniziammo a darci del tu, sciogliendo così quel sottile velo di diffidenza che poco prima ci legava. Ascoltavo volentieri i racconti di Rosa, mi piaceva seguirne le sfumature, gli aneddoti, viaggiare con lei a ritroso nel tempo e, con la fantasia, immaginarmi di essere lì, accanto a lei e vivere quella vita. Alle luci del primo pomeriggio, un po’ alla volta il cortile cominciò a popolarsi di vispi ragazzini che, ancora saturi del pranzo appena terminato, correvano avanti e indietro prendendo a calci un pallone che tutti volevano far proprio. Ne seguirono grida e incitamenti che, alla lunga, infastidirono i nervi e le orecchie di Rosa. Spazientita dal continuo schiamazzare, si alzò dalla panchina e scrollandosi le briciole di dosso m’invitò ad abbandonare quel luogo diventato ormai una ridda di voci concitate e caotiche che mal si addiceva alla sua mentalità di donna all’antica. “Còssa sarà mai stò zògo del calcio!” – disse rifacendosi il nodo al grembiule. E dopo un attimo di pausa, aggiunse: “Ma nò i se rende conto che vànti ‘ndar fòra a zugàre , i gà da fare e lessiòn!” (Ma non si rendono conto che prima di uscire a giocare, devono fare le lezioni!). In verità, quei ragazzini facevano un tal frastuono, da sembrare il doppio di quelli che in realtà erano: era davvero impossibile parlare normalmente senza dover urlare. Così anch’io mi alzai, dando un ultimo sguardo a quel gruppetto di scalmanati che continuavano nel loro gioco a rincorrersi. Nell’aria tagliente del pomeriggio, guardavo quei giovani volti arrossirsi come mele mature e il loro fiato tramutarsi in nuvole bianche che si sperdevano leggere come soffi di borotalco, svanendo silenziose al continuo sospirare del vento. Raggiunsi Rosa, che nel frattempo mi aveva preceduto di qualche metro, e con lei ripresi la strada del ritorno. Durante il tragitto, mi ritornò alla mente una domanda che da qualche giorno mi ronzava in testa, una di quelle che s’insinua furtiva nei pensieri di tutti i giorni e che non ti abbandona se prima non ne trovi la soluzione. Una domanda che già quindici giorni prima avrei dovuto farle, ma chissà per quale motivo non ebbi la forza di pronunciare. Forse perché mi mancava il coraggio o avevo il timore di una sua risposta sgarbata, insofferente o forse perché non volevo andare incontro a un suo silenzio. Un silenzio che mi avrebbe messo in testa altri dubbi, facendomi immaginare tutto e niente. Era questo il mio vero timore. In ogni caso non l’avrei biasimata, anzi, l’avrei capita perfettamente. Comunque andasse, era un interrogativo cui dovevo dare assolutamente una risposta.

La corte di casa
Arrivammo davanti casa. Il cesto della biancheria era ancora al suo posto, adagiato sul selciato, vicino alla porta d’ingresso. Qualcuno, in nostra assenza, lo aveva ricoperto con un telo bianco per proteggerlo dalle foglie e dal vento che ogni tanto imperversava con improvvisi sbuffi. Rosa si chinò e lo tolse. Mi disse che a mettere quel telo era stata una sua vicina di casa che di tanto in tanto passava a trovarla per darle un saluto e controllare che tutto andasse bene. Intanto che lei mi parlava, io non riuscivo a staccare gli occhi da quel cumulo di bianco. Il sole del pomeriggio lo illuminava di luce calda e profumata rendendo il suo biancore quasi accecante; l’aria, invece, ne disperdeva le delicate essenze che pian piano giunsero a inondarmi il respiro. Tirate fuori dalla tasca della traversa le chiavi di casa, Rosa aprì in doppia mandata la porta d’entrata, spalancandola completamente, lasciandomi così intravedere parte dell’arredamento, in perfetta sintonia con la sua personalità: austero ed essenziale. Poi, raccolto il cesto della biancheria, m’invitò a entrare per un caffè. Ringraziando, accettai. Appena varcai l’ingresso, fui subito rapito dagli odori perpetui del tempo imprigionati in quelle mura intrise di ricordi. Sapevano di legno vissuto, di muffa, di brace appena spenta; odori che il calore della stufa accesa accentuava, spargendone l’anima per tutta la casa. Li respirai profondamente, finché le narici ne furono sature. Mi guardai intorno, incuriosito. Mobili vecchi, quadri, oggetti di vario genere, immagini sacre, ogni cosa aveva il sapore antico del passato, il valore autentico di un tesoro che lei custodiva gelosamente tra quelle pareti di cemento. Una vecchia cassapanca di legno di noce collocata in un angolo dell’entrata, attirò la mia attenzione. Era impreziosita da un bel centrino che ne riempiva tutta la lunghezza e sopra, vi erano posati, in bella mostra, alcuni portafoto che incorniciavano immagini di famiglia che Rosa, con arguzia e precisione, aveva disposto con un ordine quasi geometrico. Non li contai, ma a occhio e croce saranno stati una decina, tutti in diagonale, uno dietro l’altro, a distanza regolare e in rigoroso ordine decrescente. Prima di entrare in cucina, notai che sopra la porta era appeso, in posizione centrale, un bel crocefisso in legno di olivo intagliato a mano, come segno di devozione. Quando entrai, trovai Rosa intenta a preparare il caffè che poi, con cura, mise sulla piastra della stufa a legna. Nell’attesa che la bruna miscela gorgogliasse e spandesse il suo aroma, Rosa sfilò una sedia da sotto il tavolo e m’invitò a sedere. Era in formica verde salvia, con lo schienale un po’ sbeccato e lo scheletro in metallo che, in alcuni punti, presentava della ruggine. Dello stesso stile, erano anche il tavolo, la credenza e le altre tre sedie. Al centro del tavolo, risaltava una ciotola in vetro smerigliato riempita di frutta assortita tra cui spiccavano tre belle arance, il cui profumo invitava a mangiarle. In quella calda e intima atmosfera che si era venuta a creare, pensai che fosse giunto il momento di parlarle, di porle, finalmente, quella domanda che da settimane mi assillava e di capire, in modo definitivo, quel nascosto segreto che tanto la tormentava. Rosa stava lì, anche lei seduta davanti a me, con l’espressione vaga di chi attende che sia l’altro a fare la prima mossa. Cercai allora di scuotermi e uscire dall’imbarazzante senso d’inquietudine che mi attanagliava e mi teneva inchiodato sul posto. Inspirai a lungo, espellendo lentamente l’aria dal mio petto, racimolai frammenti di coraggio e tenendo un tono di voce adeguato, le chiesi da dove provenisse quell’oscura apprensione che, agli occhi degli altri, la faceva sembrare distaccata e lontana, e quell’ostinata ritrosia, che riversava così pesantemente sulle persone e sulla vita. Seguì un breve silenzio che, in quell’istante, mi sembrò eterno. Fu il gorgoglio della moka a spezzare quell’eterea silenziosità interpostasi tra i nostri sguardi incerti, sospesi in un interrogativo cui non riuscivamo a staccarci. Rosa si alzò, prese la moka dalla stufa, versò il caffè sulla tazzina, tirò fuori dalla credenza lo zucchero e mise il tutto su un vassoio che appoggiò sul tavolo. Mi servii e con il cucchiaino, mescolai lentamente lo zucchero. Ne uscì un ritmato tintinnio, simile a un dolce suono di campanelle a festa, che rimbalzava allegro sulle pareti della cucina. Mentre sorseggiavo il caffè, scrutai gli occhi di Rosa, sempre attenti e insondabili, resi impermeabili dalla patina del tempo che lasciava scivolar via ogni tipo d’emozione. D’improvviso, le sue labbra accennarono un tenue sorriso, in un’espressione che sembrava nascondere qualcosa. Come una crisalide avvolta nel suo bozzolo, Rosa continuava a stare immersa nei suoi pensieri e a non dire niente. Alzatasi, poi, dalla sedia, si tolse lo scialle, lo posò sullo schienale e uscì dalla cucina dicendo: ”Spèta n’àtimo”. Si presentò poco dopo con una vecchia scatola di latta piuttosto consunta che posò sul tavolo con delicatezza come se, all’interno, vi fosse contenuta chissà quale reliquia. Era tutta decorata da immagini floreali su fondo rosa antico e sul coperchio sbordava una barretta ottonata che fungeva da apertura. Prima di aprirla, però, Rosa volle spiegarmene la provenienza e come ne entrò in possesso. Un tempo, quella scatola conteneva caramelle assortite, confezionate singolarmente, una a una, da una cartina colorata che ne faceva intuire il gusto. Gliela regalò sua madre, nel giorno del decimo compleanno, sfinita dalle continue richieste della figlia. Rosa, infatti, si accorse di quell’invitante confezione, una mattina, passando davanti alla vetrina della drogheria, dove ogni tanto sua madre si fermava a far compere. Era esposta in bella mostra, in mezzo a tante altre leccornie e ogni volta che la vedeva, i suoi occhi s’illuminavano di gioia. Da quel giorno, Rosa decise che doveva appartenerle a tutti i costi. E così fu. Ogni volta che scartava e assaporava quelle delizie ai gusti di frutta, d’anice, di miele e d’orzo, il suo palato si riempiva d’allegria; quella goduria gustativa, la coccolava, la faceva star bene. Una volta poi svuotata del contenuto, Rosa conservò quella scatola come un oggetto prezioso, facendone il suo scrigno dorato dove riporre i suoi segreti e i suoi ricordi. E, anno dopo anno, Rosa vi raccolse un’intera vita: un pacchetto di lettere, scritte in gioventù e mai spedite, raccolte in meticoloso ordine cronologico, da un nastrino di raso blu, santini, anelli, chincaglierie, ritagli ingialliti di giornale e un involucro di plastica, dove all’interno vi erano dei petali secchi di rosa. In quel sacchettino scurito dalla muffa, oltre ai petali, si leggeva a stento un bigliettino che diceva: “Al mio grande Amore, tuo per sempre. Giulio”. Era uno dei primi pensieri d’amore che ricevette da chi un giorno sarebbe diventato suo sposo. Ogni oggetto che Rosa estraeva da quel rettangolo di latta, era un frammento di vita intriso di storie, aneddoti, curiosità che si rianimava attraverso i suoi racconti. Tutto aveva una data, un significato, come se quei ricordi non appartenessero al passato, ma fossero più che mai presenti nella sua mente.


Mi distolsi per un attimo da quella carrellata di ricordi, volgendo lo sguardo alla finestra. Attraverso i vetri, la luce calda del tardo pomeriggio, era morbidamente filtrata dalle tendine che ne attutivano la forza, tingendo di riflessi dorati il piano del tavolo e parte del muro, in una scenografia naturale che dava l’illusione di stare in un contesto teatrale. Capii allora, che quella scatola rappresentava per Rosa il suo mondo nascosto, l’ancora di salvezza per uscire da una realtà alla quale non sentiva più di appartenere, un salutare “passepartout” da usare quando la solitudine le sovrastava i pensieri e l’angoscia le mordeva l’anima. Ecco, dunque, i suoi sospetti, i suoi dubbi, il suo continuo indagare verso tutto e tutti. La luce del sole allungava sempre più la sua ombra, imbrunendo pian piano l’orizzonte. Mi alzai dalla sedia, facendo capire a Rosa che era venuto il momento di salutarci. Questa volta acconsentì, guardandomi teneramente. Le porsi la mano, ringraziandola per le belle ore trascorse insieme. Attraverso i suoi racconti, ebbi modo di conoscerla in profondità, scoprendo quel lato nascosto che, agli occhi degli altri, la faceva sembrare rude e scontrosa. In realtà non era così. Rosa si dimostrò d’essere, al contrario, una persona sensibile, attenta ma, soprattutto, autentica. Certamente, il tempo ne aveva cambiato l’aspetto, affievolito il vigore; il suo animo, però, era rimasto intatto, puro. Pensando a ciò, mi resi conto che anch’io stavo vivendo in modo diverso la mia vita. Ero riuscito, inconsapevolmente, a darle un significato, proiettandomi così in una dimensione nuova, sicuramente più realistica e gratificante rispetto a quella stereotipata e confusa che conducevo tutti i giorni. Ora, potevo finalmente dire di assaporarne tutto il suo valore. Prima di accompagnarmi all’uscita, Rosa ripose con cura tutti i suoi ricordi dentro la scatola, poi prese il coperchio e la chiuse, lasciandola lì, vicino alla ciotola di frutta. Uscimmo, e i profumi acri della sera ci sfiorarono il respiro di malinconia. Guardai l’orizzonte. Il cielo si era ritagliato una striscia di cobalto che faceva apparire quella parte d'azzurro, ancora chiara, tersa, mentre tutt’intorno le sagome dei colli diventavano via via sempre più scure e solitarie. Il sole era una palla infuocata che, lentamente, degradava il suo bagliore dietro la scura luce del crepuscolo, lasciando intatti i soffusi colori del tramonto. Rosa volle accompagnarmi ancora per qualche metro. Arrivammo così al punto dove, l’angusto sentiero, iniziava il suo percorso. Guardandomi, poi, con un’espressione incuriosita, mi chiese cosa stessi cercando di così importante lungo quel viottolo imboscato, dimenticato da Dio. “Un esile e solitario albero”, risposi. Infatti era lì, che si ergeva solitario in mezzo all’oscurità della pianura. Lo vedevo a stento, ma ne distinguevo ugualmente i contorni. La sua silhouette era inconfondibile. Sembrava la mano rattrappita di un vecchio, usurata dal tempo e dalla fatica, protesa verso l’alto, alla ricerca di un aiuto o di una risposta che qualcuno, lassù, avrebbe dovuto dargli ma che il passare del tempo aveva per sempre cancellato, trasformando quella mano in un intricato groviglio di rami secchi e aridi. Quando indicai anche a Rosa il minuto albero, scoppiò a ridere. Lei, che ogni giorno lo vedeva ciondolare alle gelide frustate del vento, non lo considerava neppure, anzi, mi fece capire che un albero come quello lo avrebbe usato solo per far legna da buttare sul fuoco. Ancora una volta la spontaneità di Rosa affiorò dalle sue labbra come petali di un fiore al primo disgelo. Lasciai scivolar via la sottile provocazione e tenni dentro di me le emozioni e le molteplici percezioni che quell’alberello seppe trasmettermi. Abbracciai affettuosamente Rosa promettendogli che, se mi fossi trovato nuovamente dalle sue parti, sarei senz’altro passato a darle un saluto. Scesi il breve tratto che mi separava dall’auto, ripensando alla giornata trascorsa e agli appassionanti racconti di Rosa. Racconti di gente povera e orgogliosa, affidati al grembo materno della terra, raccolti dalla voce flebile del vento e poi sparsi, come chicchi di grano, nei fertili solchi di cuori sognanti.

Le calde tonalità del tramonto.
[1] Rancuràre = Raccogliere

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