Ascoltai Rosa in silenzio, lo stesso che impregnava l’aria in quel momento. Dopo un po’ le chiesi, vista la sua vena confidenziale, se non era il caso di trovare un posto in cui sedersi per continuare tranquillamente la conversazione. Senza dire niente, prese da terra il cesto di biancheria, si diresse verso l’entrata di casa e lo posò accanto alla parete, in maniera che stesse riparato. Poi, con un cenno della mano, m’invitò a seguirla. Passammo di fianco casa e scendemmo lungo una stradina ghiaiosa fiancheggiata da alte siepi che nascondevano una serie di abitazioni. Percorsi alcuni metri, sbucammo presso un cortile che si apriva su un’ampia piazza, attorniata dai vividi colori del platano e del frassino che ne adombravano in parte la superficie. Ai bordi, un trittico di panchine e tavolini in pietra ammuffiti dal tempo e dalle intemperie, creavano una specie di semicerchio che ne seguiva la forma circolare. A questo punto Rosa si fermò, indicandomi con il dito la panchina su cui era solita sedersi. “
Quà d’istà ea zente vien par stare al fresco e ciacolàre de quèlo che capita.” (Qua, d’estate, la gente viene per rinfrescarsi e chiacchierare di quello che succede), disse guardandosi intorno come se fosse lei a gestire quello spazio. Prima di sederci, spostammo con la mano alcune foglie secche che coprivano la seduta della panchina, mentre quelle a terra continuavano a scrocchiare allegre sotto i nostri piedi. Aiutai Rosa ad accomodarsi, facendo attenzione ché non scivolasse. Poi mi sedetti anch’io, appoggiandomi a fianco, lo zainetto e la macchina fotografica. Rivolsi d’istinto lo sguardo al cielo. Non so esattamente il perché, ma lo feci. Forse era un modo per attingere un’idea o un’ispirazione adatta alla circostanza. Era di un azzurro intenso, illimitato, sembrava un immenso oceano. Fissai quel colore fino a riempirmi gli occhi. Mi trasmetteva gioia, mi rilassava, mi faceva stare bene.
|
Colori d'autunno |
Gli alberi, intanto, continuavano a essere spazzolati dal giocoso soffiare del vento d’autunno che si divertiva come un matto a tirar via le foglie dai rami, facendole cadere a terra come tante piume colorate. Per le vie e nelle vicine case regnava il silenzio del dopo pranzo. Un silenzio che comunque trovai avvolgente, sacrale, che riempiva di pace quel momento. Un tocco di campana, proveniente dalla vicina vallata, mise fine a quell’incanto. Balzando su di scatto dalla panchina, guardai l’orologio che portavo al polso, segnava l’una e trenta. Il tempo era volato via senza che me ne accorgessi ed ero in forte ritardo per il pranzo. Cercai di congedarmi in fretta da Rosa, scusandomi per il breve tempo dedicatole ma, soprattutto, pensando alle imprecazioni che avrei ricevuto da mia moglie al mio ritorno. Lei, di contro, appoggiandomi una mano sulla spalla, mi fermò, pregandomi di restare. Fu una richiesta che mi spiazzò, lasciandomi senza una risposta. Incespicando sulle parole, cercai di farle capire che avevo una famiglia che mi stava aspettando e che anche lei, forse, avrebbe dovuto pensare al suo appetito. Con la schiettezza che la distingueva, mi rispose che già si sentiva sazia avendo fatto, durante la mattinata, un’abbondante colazione da sua nipote. I morsi della fame mi stavano attorcigliando lo stomaco. Non sapevo cosa dire né come comportarmi. Mi resi conto di trovarmi di fronte a una situazione paradossale, oppresso da un’incertezza che mi teneva in bilico. Quella stessa incertezza che ogni giorno m’intralciava la vita rendendomela insicura e piena di dubbi. Guardai Rosa che se ne stava seduta lì, sull’umida panchina di pietra, in attesa di una mia risposta che tardava ad arrivare ma che alla fine, trovai. Lasciai le mie apprensioni disperdersi nel vento, insieme al profumo di foglie sfatte che l’aria sollevava da terra, e con un cenno del capo feci segno a Rosa che sarei rimasto, incontrando nei suoi occhi un segno di compiacimento. Chiamai mia moglie informandola di quanto stava accadendo. La pregai di non preoccuparsi e di aspettare tranquilla il mio ritorno. Completate con buon esito le formalità coniugali, presi lo zaino per vedere cos’era avanzato dalla camminata fatta nella mattinata. Lo aprii trovandovi ancora due pacchetti di crackers, dell’acqua e una barretta di cioccolato avvolta nell’alluminio. Tirai fuori il “mesto pranzo” offrendogliene anche a Rosa che, nonostante la sua sazietà, accettò volentieri. Mangiammo per un po’in silenzio, cullati dal lento andare dei pensieri che vagavano leggeri la nostra mente. Centellinando ogni morso, rimanevo con lo sguardo incantato a fissare un punto davanti a me, senza riuscire a metterlo a fuoco, come se andassi in cerca di una risposta che mi svelasse il perché di quell’istante. Fu Rosa a rompere l’armonioso silenzio, parlandomi ancora una volta della sua gioventù e della sua terra. Col passare del tempo il nostro dialogo divenne più scorrevole e sincero. Iniziammo a darci del tu, sciogliendo così quel sottile velo di diffidenza che poco prima ci legava. Ascoltavo volentieri i racconti di Rosa, mi piaceva seguirne le sfumature, gli aneddoti, viaggiare con lei a ritroso nel tempo e, con la fantasia, immaginarmi di essere lì, accanto a lei e vivere quella vita. Alle luci del primo pomeriggio, un po’ alla volta il cortile cominciò a popolarsi di vispi ragazzini che, ancora saturi del pranzo appena terminato, correvano avanti e indietro prendendo a calci un pallone che tutti volevano far proprio. Ne seguirono grida e incitamenti che, alla lunga, infastidirono i nervi e le orecchie di Rosa. Spazientita dal continuo schiamazzare, si alzò dalla panchina e scrollandosi le briciole di dosso m’invitò ad abbandonare quel luogo diventato ormai una ridda di voci concitate e caotiche che mal si addiceva alla sua mentalità di donna all’antica. “
Còssa sarà mai stò zògo del calcio!” – disse rifacendosi il nodo al grembiule. E dopo un attimo di pausa, aggiunse: “
Ma nò i se rende conto che vànti ‘ndar fòra a zugàre , i gà da fare e lessiòn!” (Ma non si rendono conto che prima di uscire a giocare, devono fare le lezioni!). In verità, quei ragazzini facevano un tal frastuono, da sembrare il doppio di quelli che in realtà erano: era davvero impossibile parlare normalmente senza dover urlare. Così anch’io mi alzai, dando un ultimo sguardo a quel gruppetto di scalmanati che continuavano nel loro gioco a rincorrersi. Nell’aria tagliente del pomeriggio, guardavo quei giovani volti arrossirsi come mele mature e il loro fiato tramutarsi in nuvole bianche che si sperdevano leggere come soffi di borotalco, svanendo silenziose al continuo sospirare del vento. Raggiunsi Rosa, che nel frattempo mi aveva preceduto di qualche metro, e con lei ripresi la strada del ritorno. Durante il tragitto, mi ritornò alla mente una domanda che da qualche giorno mi ronzava in testa, una di quelle che s’insinua furtiva nei pensieri di tutti i giorni e che non ti abbandona se prima non ne trovi la soluzione. Una domanda che già quindici giorni prima avrei dovuto farle, ma chissà per quale motivo non ebbi la forza di pronunciare. Forse perché mi mancava il coraggio o avevo il timore di una sua risposta sgarbata, insofferente o forse perché non volevo andare incontro a un suo silenzio. Un silenzio che mi avrebbe messo in testa altri dubbi, facendomi immaginare tutto e niente. Era questo il mio vero timore. In ogni caso non l’avrei biasimata, anzi, l’avrei capita perfettamente. Comunque andasse, era un interrogativo cui dovevo dare assolutamente una risposta.
|
La corte di casa |
Arrivammo davanti casa. Il cesto della biancheria era ancora al suo posto, adagiato sul selciato, vicino alla porta d’ingresso. Qualcuno, in nostra assenza, lo aveva ricoperto con un telo bianco per proteggerlo dalle foglie e dal vento che ogni tanto imperversava con improvvisi sbuffi. Rosa si chinò e lo tolse. Mi disse che a mettere quel telo era stata una sua vicina di casa che di tanto in tanto passava a trovarla per darle un saluto e controllare che tutto andasse bene. Intanto che lei mi parlava, io non riuscivo a staccare gli occhi da quel cumulo di bianco. Il sole del pomeriggio lo illuminava di luce calda e profumata rendendo il suo biancore quasi accecante; l’aria, invece, ne disperdeva le delicate essenze che pian piano giunsero a inondarmi il respiro. Tirate fuori dalla tasca della traversa le chiavi di casa, Rosa aprì in doppia mandata la porta d’entrata, spalancandola completamente, lasciandomi così intravedere parte dell’arredamento, in perfetta sintonia con la sua personalità: austero ed essenziale. Poi, raccolto il cesto della biancheria, m’invitò a entrare per un caffè. Ringraziando, accettai. Appena varcai l’ingresso, fui subito rapito dagli odori perpetui del tempo imprigionati in quelle mura intrise di ricordi. Sapevano di legno vissuto, di muffa, di brace appena spenta; odori che il calore della stufa accesa accentuava, spargendone l’anima per tutta la casa. Li respirai profondamente, finché le narici ne furono sature. Mi guardai intorno, incuriosito. Mobili vecchi, quadri, oggetti di vario genere, immagini sacre, ogni cosa aveva il sapore antico del passato, il valore autentico di un tesoro che lei custodiva gelosamente tra quelle pareti di cemento. Una vecchia cassapanca di legno di noce collocata in un angolo dell’entrata, attirò la mia attenzione. Era impreziosita da un bel centrino che ne riempiva tutta la lunghezza e sopra, vi erano posati, in bella mostra, alcuni portafoto che incorniciavano immagini di famiglia che Rosa, con arguzia e precisione, aveva disposto con un ordine quasi geometrico. Non li contai, ma a occhio e croce saranno stati una decina, tutti in diagonale, uno dietro l’altro, a distanza regolare e in rigoroso ordine decrescente. Prima di entrare in cucina, notai che sopra la porta era appeso, in posizione centrale, un bel crocefisso in legno di olivo intagliato a mano, come segno di devozione. Quando entrai, trovai Rosa intenta a preparare il caffè che poi, con cura, mise sulla piastra della stufa a legna. Nell’attesa che la bruna miscela gorgogliasse e spandesse il suo aroma, Rosa sfilò una sedia da sotto il tavolo e m’invitò a sedere. Era in formica verde salvia, con lo schienale un po’ sbeccato e lo scheletro in metallo che, in alcuni punti, presentava della ruggine. Dello stesso stile, erano anche il tavolo, la credenza e le altre tre sedie. Al centro del tavolo, risaltava una ciotola in vetro smerigliato riempita di frutta assortita tra cui spiccavano tre belle arance, il cui profumo invitava a mangiarle. In quella calda e intima atmosfera che si era venuta a creare, pensai che fosse giunto il momento di parlarle, di porle, finalmente, quella domanda che da settimane mi assillava e di capire, in modo definitivo, quel nascosto segreto che tanto la tormentava. Rosa stava lì, anche lei seduta davanti a me, con l’espressione vaga di chi attende che sia l’altro a fare la prima mossa. Cercai allora di scuotermi e uscire dall’imbarazzante senso d’inquietudine che mi attanagliava e mi teneva inchiodato sul posto. Inspirai a lungo, espellendo lentamente l’aria dal mio petto, racimolai frammenti di coraggio e tenendo un tono di voce adeguato, le chiesi da dove provenisse quell’oscura apprensione che, agli occhi degli altri, la faceva sembrare distaccata e lontana, e quell’ostinata ritrosia, che riversava così pesantemente sulle persone e sulla vita. Seguì un breve silenzio che, in quell’istante, mi sembrò eterno. Fu il gorgoglio della moka a spezzare quell’eterea silenziosità interpostasi tra i nostri sguardi incerti, sospesi in un interrogativo cui non riuscivamo a staccarci. Rosa si alzò, prese la moka dalla stufa, versò il caffè sulla tazzina, tirò fuori dalla credenza lo zucchero e mise il tutto su un vassoio che appoggiò sul tavolo. Mi servii e con il cucchiaino, mescolai lentamente lo zucchero. Ne uscì un ritmato tintinnio, simile a un dolce suono di campanelle a festa, che rimbalzava allegro sulle pareti della cucina. Mentre sorseggiavo il caffè, scrutai gli occhi di Rosa, sempre attenti e insondabili, resi impermeabili dalla patina del tempo che lasciava scivolar via ogni tipo d’emozione. D’improvviso, le sue labbra accennarono un tenue sorriso, in un’espressione che sembrava nascondere qualcosa. Come una crisalide avvolta nel suo bozzolo, Rosa continuava a stare immersa nei suoi pensieri e a non dire niente. Alzatasi, poi, dalla sedia, si tolse lo scialle, lo posò sullo schienale e uscì dalla cucina dicendo: ”
Spèta n’àtimo”. Si presentò poco dopo con una vecchia scatola di latta piuttosto consunta che posò sul tavolo con delicatezza come se, all’interno, vi fosse contenuta chissà quale reliquia. Era tutta decorata da immagini floreali su fondo rosa antico e sul coperchio sbordava una barretta ottonata che fungeva da apertura. Prima di aprirla, però, Rosa volle spiegarmene la provenienza e come ne entrò in possesso. Un tempo, quella scatola conteneva caramelle assortite, confezionate singolarmente, una a una, da una cartina colorata che ne faceva intuire il gusto. Gliela regalò sua madre, nel giorno del decimo compleanno, sfinita dalle continue richieste della figlia. Rosa, infatti, si accorse di quell’invitante confezione, una mattina, passando davanti alla vetrina della drogheria, dove ogni tanto sua madre si fermava a far compere. Era esposta in bella mostra, in mezzo a tante altre leccornie e ogni volta che la vedeva, i suoi occhi s’illuminavano di gioia. Da quel giorno, Rosa decise che doveva appartenerle a tutti i costi. E così fu. Ogni volta che scartava e assaporava quelle delizie ai gusti di frutta, d’anice, di miele e d’orzo, il suo palato si riempiva d’allegria; quella goduria gustativa, la coccolava, la faceva star bene. Una volta poi svuotata del contenuto, Rosa conservò quella scatola come un oggetto prezioso, facendone il suo scrigno dorato dove riporre i suoi segreti e i suoi ricordi. E, anno dopo anno, Rosa vi raccolse un’intera vita: un pacchetto di lettere, scritte in gioventù e mai spedite, raccolte in meticoloso ordine cronologico, da un nastrino di raso blu, santini, anelli, chincaglierie, ritagli ingialliti di giornale e un involucro di plastica, dove all’interno vi erano dei petali secchi di rosa. In quel sacchettino scurito dalla muffa, oltre ai petali, si leggeva a stento un bigliettino che diceva: “Al mio grande Amore, tuo per sempre. Giulio”. Era uno dei primi pensieri d’amore che ricevette da chi un giorno sarebbe diventato suo sposo. Ogni oggetto che Rosa estraeva da quel rettangolo di latta, era un frammento di vita intriso di storie, aneddoti, curiosità che si rianimava attraverso i suoi racconti. Tutto aveva una data, un significato, come se quei ricordi non appartenessero al passato, ma fossero più che mai presenti nella sua mente.
|
|
Mi distolsi per un attimo da quella carrellata di ricordi, volgendo lo sguardo alla finestra. Attraverso i vetri, la luce calda del tardo pomeriggio, era morbidamente filtrata dalle tendine che ne attutivano la forza, tingendo di riflessi dorati il piano del tavolo e parte del muro, in una scenografia naturale che dava l’illusione di stare in un contesto teatrale. Capii allora, che quella scatola rappresentava per Rosa il suo mondo nascosto, l’ancora di salvezza per uscire da una realtà alla quale non sentiva più di appartenere, un salutare “passepartout” da usare quando la solitudine le sovrastava i pensieri e l’angoscia le mordeva l’anima. Ecco, dunque, i suoi sospetti, i suoi dubbi, il suo continuo indagare verso tutto e tutti. La luce del sole allungava sempre più la sua ombra, imbrunendo pian piano l’orizzonte. Mi alzai dalla sedia, facendo capire a Rosa che era venuto il momento di salutarci. Questa volta acconsentì, guardandomi teneramente. Le porsi la mano, ringraziandola per le belle ore trascorse insieme. Attraverso i suoi racconti, ebbi modo di conoscerla in profondità, scoprendo quel lato nascosto che, agli occhi degli altri, la faceva sembrare rude e scontrosa. In realtà non era così. Rosa si dimostrò d’essere, al contrario, una persona sensibile, attenta ma, soprattutto, autentica. Certamente, il tempo ne aveva cambiato l’aspetto, affievolito il vigore; il suo animo, però, era rimasto intatto, puro. Pensando a ciò, mi resi conto che anch’io stavo vivendo in modo diverso la mia vita. Ero riuscito, inconsapevolmente, a darle un significato, proiettandomi così in una dimensione nuova, sicuramente più realistica e gratificante rispetto a quella stereotipata e confusa che conducevo tutti i giorni. Ora, potevo finalmente dire di assaporarne tutto il suo valore. Prima di accompagnarmi all’uscita, Rosa ripose con cura tutti i suoi ricordi dentro la scatola, poi prese il coperchio e la chiuse, lasciandola lì, vicino alla ciotola di frutta. Uscimmo, e i profumi acri della sera ci sfiorarono il respiro di malinconia. Guardai l’orizzonte. Il cielo si era ritagliato una striscia di cobalto che faceva apparire quella parte d'azzurro, ancora chiara, tersa, mentre tutt’intorno le sagome dei colli diventavano via via sempre più scure e solitarie. Il sole era una palla infuocata che, lentamente, degradava il suo bagliore dietro la scura luce del crepuscolo, lasciando intatti i soffusi colori del tramonto. Rosa volle accompagnarmi ancora per qualche metro. Arrivammo così al punto dove, l’angusto sentiero, iniziava il suo percorso. Guardandomi, poi, con un’espressione incuriosita, mi chiese cosa stessi cercando di così importante lungo quel viottolo imboscato, dimenticato da Dio. “Un esile e solitario albero”, risposi. Infatti era lì, che si ergeva solitario in mezzo all’oscurità della pianura. Lo vedevo a stento, ma ne distinguevo ugualmente i contorni. La sua silhouette era inconfondibile. Sembrava la mano rattrappita di un vecchio, usurata dal tempo e dalla fatica, protesa verso l’alto, alla ricerca di un aiuto o di una risposta che qualcuno, lassù, avrebbe dovuto dargli ma che il passare del tempo aveva per sempre cancellato, trasformando quella mano in un intricato groviglio di rami secchi e aridi. Quando indicai anche a Rosa il minuto albero, scoppiò a ridere. Lei, che ogni giorno lo vedeva ciondolare alle gelide frustate del vento, non lo considerava neppure, anzi, mi fece capire che un albero come quello lo avrebbe usato solo per far legna da buttare sul fuoco. Ancora una volta la spontaneità di Rosa affiorò dalle sue labbra come petali di un fiore al primo disgelo. Lasciai scivolar via la sottile provocazione e tenni dentro di me le emozioni e le molteplici percezioni che quell’alberello seppe trasmettermi. Abbracciai affettuosamente Rosa promettendogli che, se mi fossi trovato nuovamente dalle sue parti, sarei senz’altro passato a darle un saluto. Scesi il breve tratto che mi separava dall’auto, ripensando alla giornata trascorsa e agli appassionanti racconti di Rosa. Racconti di gente povera e orgogliosa, affidati al grembo materno della terra, raccolti dalla voce flebile del vento e poi sparsi, come chicchi di grano, nei fertili solchi di cuori sognanti.
Nessun commento:
Posta un commento